Nella sua postfazione al volume, Sergio Bologna sottolinea giustamente come i processi di individualizzazione sembrano ormai darsi come del tutto naturali, in particolare tra quanti non svolgono lavori manuali, mentre il passaggio alla coalizione viene vissuto come una coercizione. Il volume Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale (Meltemi, pp. 175, euro 16) è quindi ancora più prezioso poiché curato da un gruppo di giovani ricercatori e ricercatrici (Carlotta Benvegnù, Nicolò Cuppini, Mattia Frapporti, Floriano Milesi e Maurilio Pirone) che da alcuni anni si muovono all’interno di una ricerca collettiva e trans-disciplinare che già nel suo nome – Into the Black Box – si prefigge lo scopo di sondare e affrontare l’arcano delle nuove produzioni.

Si tratta di un laboratorio politico che si è formato a partire dalle lotte, in larga misura sostenute da lavoratori migranti nel settore della logistica, ma che con questo volume si pone l’ambizioso obiettivo di problematizzare il passaggio storico corrente, la cosiddetta quarta rivoluzione industriale.

I SAGGI RACCOLTI mirano ad analizzare le diverse «rivoluzioni del capitale» a partire da una critica alle interpretazioni che finora erano basate sui cambiamenti tecnologico-organizzativi occidentali e che trascurano le diverse figure del lavoro protagoniste dei processi di valorizzazione. La prospettiva metodologica della global labour history e dei subaltern studies permette agli autori di approdare a una narrazione multicentrica in grado di cogliere le relazioni dello sviluppo capitalistico non solo tra le diverse sponde dell’Oceano Atlantico, ma anche, come sottolinea Michele Filippini, con le altre aree del mondo.

Si tratta di «mettere in discussione un modello universale di industrializzazione valevole a prescindere dalla collocazione geografica o temporale» (Agnoletto). A partire da una critica delle letture stadiali dello sviluppo capitalistico, il volume evidenzia piuttosto gli assemblaggi e i conflitti che si generano nel corso dei secoli, sottolineando sia la plurisecolare accumulazione originaria, sia la mutevole combinazione di forme diverse di sussunzione e quindi di estrazione di plusvalore.

Le «rivoluzioni del capitale» devono quindi essere lette come evoluzioni, per quanto radicali, delle tecnologie e dell’organizzazione del lavoro, che producono un succedersi di «configurazioni storiche del potere societario complessivo» (Ricciardi). Il volume si interroga quindi su come in queste diverse configurazioni, nelle quali, come evidenzia Paola Rudan, permane un tratto patriarcale e razzista, l’agire di un proletariato immediatamente mondiale cerca una propria via alla sua riproduzione quotidiana, o meglio a un modo diverso di «fare la società».

Molte delle riflessioni si soffermano sugli elementi che costituiscono il capitalismo 4.0 e in particolare sulla questione dell’algoritmo che è alla base degli attuali processi lavorativi e di riproduzione sociale. Come ricorda Maurizio Ricciardi, l’algoritmo agisce sulla base del già conosciuto, funzionando come una «valorizzazione dell’anacronismo» che mette a valore l’attuale gerarchia societaria.

In questa trasformazione dei rapporti di potere e di dominio, le nuove tecnologie paiono imporre una forte torsione alle mansioni lavorative: semplificazione progressiva delle professioni complesse e richiesta di maggiori capacità per le professioni elementari (Armano, Cominu). Se l’algoritmo si pone come capitale totale in grado di produrre individui-merce autodisciplinati, d’altra parte neppure in questo inizio di XXI secolo sembrano venire meno le capacità di rovesciare le tecnologie in contro-potere: «Il capitalismo delle piattaforme ha generato le piattaforme dei riot» (Dyer-Witheford, Brenes Reyes, Liu).

IL GOVERNO DEL LAVORO attraverso algoritmi vorrebbe imporsi quindi come razionalità tecnologica, occultando il fatto che si tratta di un’operazione politica che mira a plasmare l’organizzazione sociale. Tentare di scorgere le faglie e i punti di rottura in un’operazione collettiva, come provano a fare questi giovani ricercatrici e ricercatori, è sicuramente un passo importante non solo per trovare una bussola e per orizzontarsi nella nuova composizione di classe, ma anche per la messa in discussione delle attuali forme di dominio.