Fu il pugilato lo sport più praticato nei campi di concentramento. Piaceva al Fuhrer perché incarnava la forza e la velocità d’azione, senza mai abbassare la guardia. Quel torso nudo con bicipiti e pettorali in bella mostra e la violenza dei pugni, che ben rappresentavano la razza ariana, affascinavano Hitler e tutti i nazisti a seguire, compresi i kapò, che dirigevano i campi di concentramento di Auschwitz, Dachau, Gusen e Monowitz. Finirono lì i maggiori rappresentanti dello sport ebraico, diffusosi in Europa a partire dai primi anni del Novecento, su disposizione di Max Nordau, che al primo congresso sionista di Basilea, sottolineò la necessità di dar vita a un movimento sportivo ebraico in tutta Europa. Finirono in quei campi atleti ebrei, che si erano imposti alle olimpiadi di Stoccolma, Parigi, Anversa e Amsterdam.

Piaceva ai kapò dei campi di concentramento il pugilato, e si divertivano a far combattere i deportati tra loro, anche di notte, come accadde al pugile tedesco di origini sinti Johann Torllmann, campione di Germania dei mediomassimi nel 1933,che per una razione maggiore di cibo era costretto a combattere di continuo, fino a quando sostenne un incontro con un capo SS, e anche se debilitato lo mise ko. La reazione fu immediata, una pallottola mise fine alla vita di Trollmann il 9 febbraio del 1943.  All’interno del campo i kapò distinguevano gli incontri comuni da quelli dove il livello era alto, perché a boxare erano dei veri professionisti. E’ la sorte che toccò a Leone Efrati, detto Lelletto, pugile italiano di origine ebrea, affermatosi a Roma, nel ’38 si trasferì in Francia, dove sconfisse i maggiori pugili d’Oltralpe. Si convinse a tentare la fortuna Oltreoceano e a Chicago sfidò Leo Rodak, campione Nba dei pesi piuma, incontro dall’esito incerto fino all’ultimo e che Efrati perse solo ai punti. Sulle sfide imposte a Efrati, i capi delle SS di Auschwitz scommettevano sicuri, ma quando seppe che i kapò avevano picchiato selvaggiamente il fratello, anch’egli vittima della retata che li portò ad Auschwitz, fece sentire la durezza dei suoi pugni alle SS del campo, che reagirono violentemente fino ad ammazzarlo il 16 aprile del 1944.

Ad alimentare le scommesse tra i capi dei campi di concentramento furono anche alcuni calciatori, tra i quali Ferdinando Valletti del Milan, finito a Mauthausen, che riuscì a salvare la pelle grazie al fatto che partecipò al torneo di calcio tra i capi delle SS ( vedi Alias del 2/3/2013), e quello del giovane calciatore rossonero non fu l’unico caso, qualcosa di analogo accadde anche ad Auschwitz, come ricordò qualche anno fa Nedo Fiano, padre dell’attuale deputato del Pd Emanuele Fiano: “ C’era un prigioniero, lo chiamavano “Barcarolo” un ebreo romano, che giocava le partite con le SS e di fronte a quel fatto inverosimile, restammo allibiti. Non era troppo alto persino un po’ rotondo per quanto lo si potesse in quel contesto di fame e di morte. Che fine fece non lo so, gli incontri di Auschwitz erano rapidissimi”. Non sappiamo se riuscirono a mettere in evidenza le loro qualità pedatorie altri due calciatori, Carlo Castellani e  Vittorio Staccione. Castellani era nato a Fibbiana  giocò come  mezzala nel Livorno e poi nell’Empoli, città che gli ha dedicato il nome delle stadio, apparteneva a una famiglia di antifascisti, nella notte tra il 7 e l’8 di marzo del 1944 fu arrestato a seguito di una retata effettuata dai fascisti e finì a    Mauthausen, venne poi mandato nel sottocampo di Gusen dove morì all’età di 35 anni. Vittorio Staccione, nato a Torino nel 1904, calcisticamente si formò nelle giovanili della squadra granata, scovato da Enrico Bachmann, mezzala e capitano del Torino, Staccione giocò nella Cremonese e nel Verona, nel 1927 fu acquistato dalla Fiorentina del conte Luigi Ridolfi, un fascista della prima ora e fedelissimo di Mussolini, che aveva intenzione di portare la squadra gigliata ai vertici della classifica del campionato. Si ritirò dall’attività calcistica nel 1935 e tornò a lavorare in fabbrica alla Fiat, dove si schierò sempre al fianco degli operai e per il suo antifascismo fu arrestato più volte dall’Ovra, la polizia segreta di Mussolini. Il 13 marzo del 1944, venne arrestato dalle SS con il fratello maggiore e spedito insieme ad altri antifascisti a Mauthausen-Gusen, dove morì circa un anno dopo l’arresto, il 16 aprile del 1945 poco prima del fratello Francesco, a seguito delle percosse inflitte dalle SS, che gli provocarono ferite non curate e una conseguente cancrena alla gamba.

Il mondo sportivo di allora, completamente allineato al regime mussoliniano per convinzione o per opportunismo, silenziosamente e nell’indifferenza generale, si piegò alla politica persecutoria del regime nei confronti degli ebrei, e accettò l’espulsione degli atleti “non ariani” dalle società sportive. Dalla sera alla mattina le espulsione iniziarono dal basso, nelle palestre dove ci si allenava insieme agli atleti ebrei, spesso furono comunicate a voce, come ricordano alcuni ebrei sopravvissuti. Fu comunicato loro di essere indesiderati da coloro che erano prima di tutto i loro allenatori e presidenti. Furono casi  rari, ma non mancarono gli esempi di sportivi che con piccole azioni di disobbedienza civile e di resistenza, con spirito antifascista seppero opporsi con coraggio alla dittatura e, mettendo a rischio la propria vita, aiutarono gli atleti ebrei.