È complicato, e provoca una specie di mestizia, confrontare i budget che i paesi occidentali destinano al settore culturale – e in specie per l’acquisto di opere d’arte – e le poche risorse messe sul piatto dall’Italia. Accade però che le acquisizioni abbiano qualche volta un valore che prescinde da quello del denaro speso. In alcuni casi, queste integrazioni del patrimonio pubblico avvengono in modo quasi naturale, come per l’aggiunta di un tassello che mancava, trovato nel mucchio informe e disordinato dei pezzi ancora senza destinazione. Spesso l’incastro, come per un puzzle, avviene dopo aver studiato il singolo pezzo e il vuoto da colmare, e dà infine valore all’immagine generale.
Un esempio recente è quello che riguarda il Compianto di Lattanzio Gambara (1530 circa-1574), al centro della piccola mostra-dossier Il senso del nuovo Lattanzio Gambara, pittore manierista, a cura di Marco Tanzi, fino al 20 febbraio al Museo di Santa Giulia a Brescia.
Segnalato dallo stesso Tanzi, il quadro è stato acquistato dalla Fondazione Brescia Musei per la Pinacoteca Tosio Martinengo, tornando così nella stessa città e a pochi passi dal luogo per cui era stato dipinto. La pala è infatti uscita dalla chiesa bresciana di San Bartolomeo dopo la soppressione nel 1797; finita nei gorghi del collezionismo privato è riemersa, a due secoli di distanza, solo pochi mesi fa.
Una tessera è quindi tornata al suo posto, e dice qualcosa di più sull’artista che Giorgio Vasari definì «il miglior pittore che sia in Brescia». Un maestro dalla produzione torrenziale, ma di cui è rimasto poco, e pochissimo di accessibile: è certamente uno dei motivi della sua sfortuna critica.
La mostra bresciana è l’occasione per riflettere sull’artista, per restituirgli una dimensione corretta nel panorama tardo-cinquecentesco padano. Non ne ripercorre passo passo le tracce, impossibili da riassumere in breve, ma aggiunge almeno un paio di punti fermi: oltre il Compianto, gli è riconosciuto un Trasporto di Cristo da decenni relegato – si fa per dire – sopra una porta di Palazzo Reale a Torino.
È evidente, anche dalle poche opere riunite, che la carriera di Lattanzio incede per stagioni. È un maestro che non nasconde i propri innamoramenti, e non si adagia mai. Una dopo l’altra, le epoche della sua esistenza si arricchiscono di esperienze e linguaggi diversi; rincorre, e a volte precorre. L’idioma del Compianto, per esempio, è lontanissimo dal dialetto imparato agli esordi, sotto l’ala del vecchio Romanino. Lo stile vitalissimo quanto grottesco e sprezzante imparato dal suo primo maestro si addolcisce sulle nuove rotte del manierismo padano, e se si guarda la Maddalena del Compianto, così seducente nei suoi accordi cromatici ricercati, la stratificazione di conoscenze accumulate, da Correggio a Veronese, diventa esplicita.
Tra le prime e le ultime opere Lattanzio aveva fatto in tempo a transitare più volte a Venezia – che voleva dire incontrare il manierismo di Salviati e Vasari e confrontarsi con la decorazione in fieri della Marciana – e su e giù per la Valpadana, in alcuni dei centri del rinnovamento figurativo. La sua strada si sarà incrociata spesso con quella di altri maestri, e quante volte il suo sguardo avrà indugiato sulle facciate dipinte da Pordenone, sugli affreschi e sulle tele di Giulio Romano e dei suoi sodali? E quanto è pesato il rapporto, che si direbbe piuttosto stretto, con Bernardino Gatti detto il Sojaro, tra Cremona e Parma?
Uno dei suoi capolavori, certamente il più conosciuto, è la Deposizione di Cristo nel sepolcro per l’altare della Passione in San Pietro al Po a Cremona. Le copie quasi non si contano, ed è una prova della considerazione che si dava tanto all’opera quanto al luogo per cui è stata dipinta.
Una di queste repliche, ora in mostra, è conservata nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti, ma era in Santo Stefano dei Cavalieri a Pisa, di patronato – non è certo un caso – del monsignore bresciano Ludovico Covo. Tanzi vi ha riconosciuto la mano di Vincenzo Campi, il più giovane dei tre fratelli cremonesi che dominarono la pittura lombarda del secondo Cinquecento. Il quadro è costruito con una materia brillante, ricca, alla veneta ma segnata da una lente fiamminga, propria di Vincenzo. È una cover con un arrangiamento d’alta qualità, che esalta il capolavoro di Gambara.
L’esposizione chiude sulla Conversione di Saulo oggi BPER Banca. È l’unica nota delle tre pale che Gambara ha dipinto per San Benedetto in Polirone all’inizio degli anni sessanta. Tre spettavano a lui, tre a Paolo Veronese. Se oggi la distanza tra i due artisti ci pare enorme, non lo era per i loro contemporanei. I quadri sono stati infatti pagati quasi la stessa cifra a entrambi: «35 auri in auro pro singula ancona» per Caliari, 32 per Lattanzio. E ancora, se il luogo oggi è una meta buona per una gita fuori porta, a metà Cinquecento è centrale per le sorti della cultura – non solo figurativa – di tutta Europa. Vi transitarono Teofilo Folengo, Torquato Tasso, Lutero e alcuni dei protagonisti delle dispute dottrinali di quegli anni inquieti; la Conversione era già lì quando dall’abbazia passava Vasari.
Il quadro è un insieme sfolgorante di scorci che il bresciano sfodera con abilità, come per rispondere ai florilegi muscolari nelle nuove pale del Duomo di Mantova volute nel 1552 da Ercole Gonzaga, grande ammiratore di Michelangelo, ma anche agli allievi di Giulio, già coinvolti in San Benedetto. Insomma, non sarà un lavoro facile, ma gli storici dell’arte hanno già le coordinate sufficienti per ridare a Lattanzio una giusta posizione nella geografia artistica della Maniera, rivederne le tappe, rimeditare sulle influenze date e su quelle ricevute, e bonificare le attribuzioni. Grazie a questa nuova acquisizione, il dossier è riaperto.