In The End of Eternity (1955), Isaac Asimov racconta che a un certo punto gli esseri umani conquistano il controllo del tempo. Grazie a questo, gli «Eterni» – una casta maschile di tecnocrati semimonastici che si riproduce per cooptazione – si assumono la responsabilità di intervenire con calcolati «Cambiamenti di realtà» per garantire «la felicità di tutti gli esseri umani». Tutto salta grazie a una storia d’amore: Andrew Harlan, un tecnico addetto ai Cambiamenti, si innamora di Noÿs Lambert, che crede appartenente al Tempo ordinario e si rivela invece proveniente da un futuro ulteriore e un’umanità più evoluta. Lei gli rivela che il controllo che l’Eternità esercita sul tempo, riscrivendo a piacimento passato e futuro, impedisce il libero sviluppo del genere umano e la conquista dello spazio e lo induce ad approfittare di una circostanza eccezionale e degli strumenti di cui dispone per far saltare il sistema: «E mentre Noÿs si abbandonava al suo abbraccio, venne la fine, la fine definitiva dell’Eternità – E l’inizio dell’Infinito».

Partiamo da un dettaglio filologico apparentemente minore. L’incipit originale del romanzo è: «Andrew Harlan stepped into the kettle». La traduzione italiana è: «Andrew Harlan salì a bordo del cronoscafo». Kettle è una parola quotidiana che significa pentolino, bollitore, un ordinario arnese di cucina; la versione italiana la sostituisce con un neologismo dall’aura futuribile. Dove Asimov usa un termine quotidiano in senso traslato, il traduttore italiano si sente obbligato a inventare una parola di un immaginario lessico specialistico. Nello spazio fra testo e traduzione stanno due diverse concezioni del futuro che rinviano a profonde differenze culturali fra Italia e Stati Uniti rispetto alla tecnologia, alla scienza, al progresso – e quindi rispetto al futuro.

DA UN LATO, dunque, un futuro in cui la tecnica ci stupirà con meraviglie per le quali non abbiamo parole e dovremo ogni volta inventarne di nuove ed esotiche; dall’altro, un futuro in cui la tecnologia sarà tanto familiare che le strutture usate per muoversi nel tempo saranno chiamate come noi chiamiamo oggi «macinini» quei trenini sbuffanti che un tempo chiamavamo «caffettiera». È la forma più radicale dello straniamento letterario: non tanto defamiliarizzare il già noto, quanto familiarizzare l’ignoto.
Lo scarto fra testo americano e traduzione italiana deriva anche da una diversa collocazione del punto di vista. La traduzione italiana guarda il racconto dal punto di vista dei lettori di oggi, stupefatti di fronte a un futuro di mirabolanti novità; Asimov scrive attraverso un narratore per il quale quel futuro è già presente e persino passato. Un dato che accomuna tutta la narrativa di fantascienza, infatti, è che le sue storie del futuro sono sempre raccontate al passato: la storia è ambientata millenni nel futuro, ma Andrew Harlan non «entrerà» nel macinino, bensì «entrò».

Ha scritto Daniel Defoe che «nessuno può scrivere la propria vita interamente fino alla fine, a meno che non vogliamo che la scriva una volta morto». Il fatto che dopo gli eventi narrati ci sia qualcuno che li racconta è segno che, quali che siano gli sconvolgimenti immaginabili, pure qualcuno resterà vivo per raccontarceli, come Ishmael alla fine di Moby Dick. Possiamo stare tranquilli: l’umanità non si estinguerà. In realtà, in The End of Eternity, Asimov menziona un futuro remotissimo in cui il sistema solare si estinguerà e l’umanità potrebbe non esserci più; ma tra il tempo raccontato nel romanzo e quella finale apocalisse stanno millenni in cui neanche gli Eterni possono entrare: la fine dell’umanità, insomma, non è narrabile. Il futuro ci sarà sempre. Il problema è: quanto sarà diverso?

Prendiamo Foundation, forse il capolavoro di Asimov: «Lynar Popnet era tutto coperto di sapone quando arrivò la telefonata – il che dimostra che la vecchia storia sulla relazione tra il telefono e la vasca da bagno è valida anche nell’oscuro, aspro spazio alla Periferia della Galassia». Poco prima, nello stesso libro: «L’ambasciatore ad Anacreon comprò l’edizione della sera del Quotidiano di Terminus, si infilò nel parco comunale e, seduto sulla prima panchina libera, si lesse la pagina politica, la pagina sportiva e la rubrica dei fumetti».

NON È SOLO ASIMOV. Prendiamo l’inizio di un’altra epopea del futuro, Guerre stellari. Siamo a casa di Luke Skywalker, in cucina. In primo piano, la zia dell’eroe taglia i finocchi per metterli nella pentola (kettle?) sul fornello acceso. Non sono dettagli buttati lì per caso, ma segnali intenzionali. Ha scritto Northrop Frye che l’utopia (ma anche la distopia) letteraria si costruisce in primo luogo attraverso comportamenti ordinari, atti comuni che mostrano i caratteri sociali che l’autore vuole sottolineare. In questo caso, gli atti sociali significativi servono a rassicurarci: può succedere di tutto, traumatici sconvolgimenti a scala dei millenni o delle galassie che metteranno a rischio la sopravvivenza stessa dell’umanità, ma le cose importanti davvero, le strutture profonde della vita quotidiana – quello che succede in cucina e in bagno, o nelle pause della grande storia – restano solide. Anche nei futuri millenni gli eroi avranno le zie e le zie faranno il minestrone, suonerà il telefono mentre sei sotto la doccia, leggeremo ai giardinetti giornali che magari non saranno fatti di carta ma saranno organizzati allo stesso modo attorno alle stesse notizie. Soprattutto, non cambieranno le emozioni umane: amore, odio, gelosia, invidia, ambizione, avidità saranno le stesse.

Le famiglie del futuro sono quasi sempre famiglie nucleari, e se l’umanità non si estingue è perché gli esseri umani continueranno a riprodursi più o meno come hanno sempre fatto (in The End of Eternity si accenna a una gravidanza e un parto che avvengono più o meno come adesso); le famiglie sono per lo più nucleari, gli amori sono di coppia e generalmente eterosessuali. In The End of the Eternity sarà proprio questa permanenza del presente, una normale storia d’amore fra un uomo e una donna, che farà saltare tutto l’edificio.

C’era una scritta su un muro di Roma, qualche tempo fa: «Il futuro non è scritto», diceva. Un’altra mano, ironicamente, aveva aggiunto: «È orale». Noi abbiamo sempre l’idea che lo scritto è definitivo e permanente, mentre l’orale è impalpabile ed effimero.

A BEN GUARDARE, tuttavia, è vero anche il contrario: un testo scritto può essere riscritto, corretto, cancellato all’infinito (e la scrittura elettronica esalta questa possibilità); una parola detta, una volta «dal sen fuggita», è irrevocabile. Niente è più definitivo delle parole dette: come dice Huckleberry Finn, «erano parole tremende ma erano dette e restavano dette» – e strappa il foglio con la lettera scritta.

The End of Eternity ruota sull’opposizione fra due tempi della storia. Da un lato, sta quello infinitamente rimodellabile dell’Eternità: il futuro e il passato sono contemporanei e gli Eterni possono rivisitare e correggere tutti i secoli a piacimento ogni volta che lo ritengono necessario, come un bravo redattore editoriale, cancellando errori e disastri, sbarrando guerre, epidemie e catastrofi per garantire ogni volta un futuro senza errori e senza traumi.

Dall’altro, sta il tempo «primitivo», antecedente all’invenzione dell’Eternità, di cui è appassionato cultore il protagonista Andrew Harlan: «un mondo in cui la vita era vita e la morte morte; in cui un uomo poteva prendere decisioni irrevocabili; in cui non era possibile né prevenire il male né promuovere il bene, e la battaglia di Waterloo, una volta persa, era persa una volta per tutte».

SOTTOLINEEREI il rinvio alla voce in «irrevocably». Mentre la voce è inseparabile dal tempo, è la scrittura che controlla il tempo trasformandolo in spazio. Asimov suggerisce che, rendendo tutti i secoli e millenni contemporanei, l’Eternità fa lo stesso. Gli avverbi di tempo (before, after) sono sostituiti da avverbi di spazio (upwhen, downwhen – su nel tempo, giù nel tempo). Gli Eterni sovrintendono agli scambi commerciali fra i secoli come il governo federale fra gli Stati americani; i secoli e millenni differiscono culturalmente e antropologicamente fra loro come le diverse culture nel mondo contemporaneo.

Aggiungerei che, in uno di quei giri di vite logici che Asimov ama tanto, in realtà il futuro è letteralmente «già scritto»: il compito degli Eterni, infatti, è di assicurarsi che tutto si svolga secondo un promemoria scritto da un loro inviato nel passato, in un ciclo infinitamente reversibile di causa ed effetto che solo l’eroe spezzerà alla fine. La chiave politica del romanzo sta in una frase che Harlan dice all’inizio del suo processo di liberazione: «You won’t make any plans, now» – come dire: avete finito di pianificare, adesso.

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SCHEDA. DAL SOMMARIO DEL VOLUME DA OGGI IN LIBRERIA

Il titolo del testo di Alessandro Portelli, inserito nel volume «Il futuro. Storia di un’idea» (Laterza, pp. 320, euro 20), è
«La fine dell’eternità di Isaac Asimov». Numerosi sono i contributi che declinano il tema del libro tra cui: «Dal “Prometeo” di Eschilo all’”Antigone” di Sofocle», di Eva Cantarella; «”La città di Dio” di Agostino», di Maurizio Ferraris; «”Frankenstein” di Mary Shelley», di Valeria Palumbo; «”Il Manifesto del partito comunista” di Karl Marx e Friedrich Engels», di Nadia Urbinati; «”La parola piangere” di Gianni Rodari», di Vanessa Roghi.