Del discorso di Mario Draghi all’assemblea di Confindustria il 23 settembre scorso, c’è un passaggio che merita di essere ripreso e confutato. Perché offre una lettura della nostra storia indicativa del clima culturale che oggi viviamo. Stupisce che – tranne il manifesto con l’editoriale di Alfonso Gianni del 24 scorso – da sinistra non si sia levato neanche un appunto, anche solo per dire «no, professore, noi non la pensiamo così». Nella sua prolusione, Draghi menziona le buone relazioni industriali come pilastro dell’unità necessaria a uscire dalla crisi, nella «apparente somiglianza tra la situazione di oggi e la situazione del dopoguerra».

Oggi, dice Draghi, «c’è stata una catastrofe come allora, c’è una forte ripresa come allora, con dei tassi che credo abbiamo visto soltanto in quegli anni; i tassi di crescita di oggi li abbiamo visti forse negli anni 60, sicuramente negli anni 50.» E qui Draghi si chiede: «come mai si sono interrotti questi tassi di crescita?». Gli anni Settanta furono difficili, per varie ragioni internazionali. Eppure, molti Paesi li superarono «con successo», anche grazie a buone relazioni industriali, mentre «da noi, col finire degli anni 60, invece si assiste alla totale distruzione delle relazioni industriali». Ciò che portò l’Italia su un sentiero che l’allontanò dagli altri Paesi, dice Draghi nella sua «lettura» della storia. Fu proprio così? Da dove veniva il Paese? Furono davvero relazioni industriali «distrutte» a portare l’Italia su un sentiero di sviluppo diverso, ad allontanarla dagli altri? Esiste in Italia una storiografia consolidata – tanto «di sinistra» quanto «mainstream» – sul nostro sviluppo economico e industriale del dopoguerra. Storici ed economisti hanno fornito un quadro pressocché unanime sulle relazioni industriali e sul rapporto capitale-lavoro che furono alla base della rinascita post-bellica (per menzionarne uno solo: Pierluigi Ciocca, già vicedirettore della Banca d’Italia, nel suo libro “Ricchi per sempre?”).

Dopo la guerra e poi dopo il fatidico 1948 il movimento operaio, i sindacati e i partiti socialista e comunista accettarono lo «scambio» tra sviluppo industriale capitalistico «autonomo» delle imprese e maggiore occupazione e reddito. Obtorto collo, le relazioni industriali furono pacificate, con la forza (la repressione della protesta operaia), con il salario (che, tuttavia, non crebbe mai in termini reali per tutti gli anni Cinquanta) e con l’occupazione (pagata, però, con la grande migrazione interna). Un fattore chiave dei nostri alti tassi di crescita di quegli anni, delle nostre esportazioni crescenti, fu proprio il basso costo del lavoro, reso possibile da livelli di salario infimi (grazie anche all’enorme offerta di lavoro). L’industria si allargò e quando finalmente fu il «boom», dal 1958 in avanti, anche grazie all’avvento del Mec, l’occupazione crebbe al punto che anche i salari iniziarono ad aumentare. Il movimento operaio si fece più forte chiedendo salari più alti, condizioni di lavoro migliori, meno ore di lavoro. Con la crisi del 1963-64, la musica cominciò a cambiare. Le imprese ricorsero alla «ristrutturazione interna» (i cottimi, gli straordinari), ma la pressione operaia non diminuì. Quando si arrivò all’autunno caldo (1969), era il movimento operaio che chiedeva un «riequilibrio» del rapporto capitale-lavoro, che ottenne. Altro che anni di felici relazioni industriali (le ore di sciopero non furono mai così tante)! Gli imprenditori, per fiaccare la pressione operaia, passarono allora alla «riconversione produttiva» (l’outsourcing di filiera, il lavoro a domicilio) che proseguirà lungo tutti gli anni Settanta.

Con la crisi del 1973-74, la palla al balzo fu colta dalle imprese e il calo della produzione diede luogo a disoccupazione crescente. L’inflazione, importata, continuò ad aumentare anche per via della crescente protesta operaia che chiedeva la difesa del salario reale. Lo Stato, per accomodare la tensione sociale, aumentò la spesa sociale. Non fu il 1975 l’anno del grande patto sottoscritto da Gianni Agnelli e Luciano Lama? Il punto di contingenza, relazioni sociali più stabili, questi erano gli obiettivi. Lo sviluppo industriale italiano era stato possibile grazie al basso costo del lavoro e al «contenimento» della pressione operaia e sindacale. Con quel lungo decennio, dal 1974 al 1984 (l’anno del referendum sulla contingenza) e oltre, gli industriali ottennero di rovesciare di nuovo il rapporto tra capitale e lavoro in favore del primo. E da lì ripartì una tendenza che non si è più interrotta. Pertanto, non fu la «pace sociale» a consentire gli alti tassi di crescita degli anni Cinquanta e Sessanta, così come non fu la sua rottura a causare la recessione e poi la crisi dei Settanta.

La demise storica del movimento operaio iniziò lì, quando il capitale riprese in mano il timone dello sviluppo. Che non fu più, però, quello che era stato nei decenni precedenti, e non per via delle guastate relazioni industriali. Se l’economia italiana crescerà ancora, negli anni successivi, sarà anche grazie al più basso costo del lavoro, non altro. E il professor Draghi, questo lo sa, ma preferisce un’altra narrazione, che fa piacere a Confindustria ma non alla grande massa dei lavoratori.