Due recenti fatti secondari e apparentemente distanti dovrebbero ulteriormente illuminare il senso di marcia degli attuali processi politico-economici e in qualche misura preoccuparci.

Uno è il voto in Commissione Commercio Internazionale (Inta) del Parlamento europeo sul rafforzamento degli strumenti di difesa commerciale, l’altro è l’intervento della regina d’Inghilterra nella consueta presentazione del programma del nuovo governo britannico al parlamento in cui ha sostenuto che Brexit dovrà essere «a misura d’impresa». Iniziamo dal primo.

La recente vulgata descrive un contesto internazionale in cui sarebbe in corso una specie di polarizzazione tra i sovranisti a trazione statunitense e i globalisti egemonizzati dalla Cina. In tale quadro l’Europa, per cultura economica e assetti industriali, sarebbe potenzialmente un alleato dell’Impero celeste, ma la deglobalizzazione in corso sembrerebbe ora scuotere anche i saldi principi liberisti del vecchio continente. Ed ecco che, nonostante l’Europa ruoti attorno al modello tedesco votato all’export, fa capolino un progetto di protezione che potrebbe esser più organico dei tanti dazi e accordi bilaterali approvati e sottoscritti in questi anni. Un progetto teso a porre regole su appalti, investimenti esteri e tutela delle industrie strategiche. Nei fatti una sorta di smentita della condotta aperta e liberista finora tenuta dall’Europa.

Come se i principali paesi del Vecchio continente provassero a ricercare relazioni di maggiore reciprocità per difendere le loro industrie dentro un quadro internazionale che va stringendosi, dove i paesi emergenti da una lato continuano le loro incursioni nel vendere merci e acquisire pezzi di apparati produttivi in quelli occidentali e dall’altro ricercano accordi commerciali persino con l’America di Trump, come quello siglato di recente dalla Cina.

Insomma una geometria variabile dove il mercato resta l’infrastruttura delle relazioni economiche, ma viene ridotto in scala minore, dentro un nascente contesto articolato, in cui nazionale e sovranazionale spesso si confondono. Passiamo al secondo fatto: l’intervento della regina svela la trama dello sganciamento della Gran Bretagna dall’Unione Europea.

La regina nell’illustrare, come da tradizione, il programma del governo May afferma che «Nuove leggi su dogane e commercio contribuiranno a realizzare una politica commerciale indipendente e sarà dato tutto il supporto alle imprese per esportare sui mercati di tutto il mondo». Ecco un paese che rompe con il quadro sovranazionale in cui era incasellato come intende affrontare il nuovo contesto in fieri. La Confindustria britannica, contestualmente, chiede un cambio di tono per riportare al centro i propri interessi, come se in fondo il cataclisma politico prodotto dal referendum fosse declinabile con le esigenze economico-finanziarie dominanti del paese.

Indubbiamente, la quasi sconfitta dei conservatori alle recenti elezioni ha suggerito maggiore cautela nella gestione della Brexit, ma di certo non l’ha derubricata dall’agenda politica. Una Brexit a favore dell’impresa, dunque, diventa l’unica Brexit possibile. Il rischio è che ai fallimenti della globalizzazione faccia seguito un rilancio del mercato con altri mezzi, in cui l’impresa iper-competitiva resta al centro della scena e dove gli interessi e i diritti del mondo del lavoro sono tutelati solo se compatibili con il nuovo scontro tecno-industriale.

Rompere con il globalismo economico, obiettivo primario dei sovranisti di ogni colore, rischia di essere semplicemente un ripiegamento in sedicesimi nelle medesime politiche adottate finora. Rompere il quadro attuale sottovalutando la necessità di costruire un’alternativa è una sorta di politica dei due tempi che per le classi subalterne non ha funzionato in passato e rischia di non funzionare neppure ora.