«So I got my problem again. I’m going to try to kick again. It might be too late. I might have to pay more dues. But I know I can’t get back to where I ought to be if I don’t stop entirely».
«Ho di nuovo il problema. Sto provando a liberarmi. Potrebbe essere troppo tardi. Dovrei comportarmi meglio, ma so che non posso tornare dove dovrei se non mi fermo del tutto».
Così si esprimeva il pianista african american Elmo Hope rivolgendosi al critico jazz Nat Hentoff, il quale riporterà poi le sue parole nelle note di copertina del disco Sounds from Rikers Island. Era il 19 agosto 1963 quando nell’omonimo carcere di New York, Hope dava l’ennesima prova del suo genio ponendosi a capo di una band formata da Philly Joe Jones alla batteria, Ronnie Boykins al contrabbasso, John Gilmore al sax tenore, Freddie Douglas all’alto e al soprano, Lawrence Jackson alla tromba, oltre ai cantanti Earl Coleman e Marcelle Daniels.
Sounds from Rikers Island, pubblicato dalla Audio Fidelity, oltre a essere un lavoro pregevole, è un disco iconografico. Tutti i partecipanti all’epoca della registrazione erano infatti detenuti nel complesso carcerario locato a circa sette miglia dalle atmosfere auliche di Central Park. Nella quasi totalità dei casi, per motivi legati all’uso e al commercio di eroina. È consigliabile, per entrare appieno nell’atmosfera della sessione, ascoltare le nove tracce incise leggendo quanto vergato da Hentoff: le parole sono al contempo memoria della perdizione e speranza di redenzione. Sono in sintesi, la fotografia di un’epoca in cui molte delle anime in jazz della comunità afroamericana di New York e dintorni, pagarono dazio in quella che tanto ieri come oggi, viene soprannominata «Torture Island», a causa della sistematica violazione senza tempo dei diritti civili perpetrata nei confronti di minorenni, donne e uomini reclusi dietro quelle sbarre. Perché la storia di Rikers è tutt’altro che conclusa, come dimostra l’impegno pluriennale profuso da associazioni e movimenti che si battono per la decarcerazione e per la chiusura delle dieci prigioni presenti sull’isola. All’interno delle quali non sono passati solo Hope e i suoi illustri sodali, ma molti altri musicisti.

UN TRIO MERAVIGLIOSO
Una storia emblematica riguarda i suoi amici di gioventù, Thelonious Monk e Bud Powell. L’autore di Brilliant Corners nel 1951 si rese protagonista di un gesto di enorme generosità: considerato il precario equilibrio psichico di Bud, Monk si addossò la responsabilità del possesso di eroina che era in realtà di Powell, vedendosi così rinchiuso a Rikers per un paio di mesi, oltre a subire poi una lunga sospensione della «cabaret card», la licenza che dal 1927 al 1967 permise ai musicisti presenti a New York di esibirsi nei locali notturni e nei club. Che Hope fosse un talento non ordinario, lo rammenta anche la pianista Bertha Rosemond, che fu compagna d’arte e d’amore di Elmo. In una intervista di qualche anno fa, narra di come il meraviglioso trio composto da Thelonious, Bud e dal marito fosse affascinato dalle composizioni di gente come Bach e Stravinsky. Non pago, Hope progettava assieme all’amico John Coltrane di suonare qualcosa dal repertorio del grande compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos. Anche John Lenwood «Jackie» McLean aveva una stima corposa di Hope, come egli stesso rammenta in particolare in Indling, un brano di hard bop incluso nell’album Lights Out, registrato nel 1956 ma uscito nel 1961. E anche Jackie non fece eccezione, in quanto mentre faceva sbocciare il suo talento al centro di Harlem nella zona di Lenox Avenue, poi ribattezzata Malcolm X Boulevard, a Rikers entrò anche lui. Trovandosi in buona compagnia, ovviamente sempre a seguito di storie tossiche: la band della prigione era diretta dal bravo sassofonista Ike Quebec, già in area Blue Note, a cui si aggiungevano tra i vari il citato trombettista Freddie Douglas e il batterista Roy Porter. Già la generazione precedente dei jazzisti aveva toccato con mano il ghetto carcerario di Rikers. Milton «Mezz» Mezzrow vi fu rinchiuso nel 1940, a seguito del suo appassionato amore verso la marijuana, che il clarinettista e sassofonista bene esplica nell’autobiografia Really the Blues. Anche Miles Davis non si fece cruccio nel raccontare nella sua autobiografia che a tirarlo fuori da Rikers nel 1955 fu probabilmente Max Roach, che inviò il suo avvocato Harold Lovett a pagare la cauzione. Per la cronaca, Lovett divenne poi avvocato e amico dello stesso Davis, il quale in vari passaggi della narrazione ricorda che in preda all’eroina e alle relative vicende detentive, c’erano praticamente quasi tutti da Bird a Freddie Webster a Gene Ammons, da Conrad Yeatis «Sonny» Clark a Sonny Stitt, passando per Billie Holiday, Dexter Gordon, Tadd Dameron e fino a Sonny Rollins, che nel 1950 varcò i cancelli della prigione. Egli stesso ricorderà più volte che l’uso di sostanze aveva implicazioni sociali e razziali. Non è un caso che due provvedimenti statali, Boggs Act del 1951 e Daniel Act del 1956, aumentarono la repressione della polizia con modalità palesemente vicine alle norme Jim Crow.

PESANTE QUOTIDIANITÀ
Va ricordato che in quegli anni, la quotidianità di Rikers era davvero pesante e tra i vari lavori obbligatori per i carcerati, era prassi essere portati nella vicina isola di Hart per lavorare come becchini nel locale cimitero. Le dinamiche di controllo sociale e razziale che dagli anni Ottanta a seguire includono tanto la guerra al crack che la carcerazione di massa, le spiega mirabilmente Michelle Alexander in The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness, e vedono ancora una volta «Torture Island» al centro del processo punitivo. A essere colpita è sempre e prevalentemente la comunità african american che, archiviata la stagione del grande jazz, viene ora raccontata dalle rime di una ridda di artisti hip hop che valicano i cancelli di Rikers. Richard Martin «Slick Rick» Lloyd Walters nel 1989 viene coinvolto in una sparatoria che gli costa dieci anni di prigione, da dove darà luce al simbolico e riuscito album, con annesso omonimo singolo, Behind Bars edito dalla Def Jam. Label quest’ultima che ha sempre avuto un rapporto «speciale» con l’isola: il 12 agosto 1988, i Public Enemy, prossimi a lanciare il leggendario album It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back divennero il primo gruppo rap a esibirsi dietro le sbarre. Dietro cui passò anche Flavor Flav nel 1993, esperienza che con i PE sublimò con Bridge of Pain del 2007 nel disco How You Sell Soul to a Soulless People Who Sold Their Soul?.
Anche il nome probabilmente più altisonante di sempre, quello di Tupac Shakur, è inciso nelle celle. Con un episodio che è entrato nella mitologia del rap, ossia l’intervista che rilasciò mentre era incarcerato, allo scrittore e attivista politico Kevin Powell. Nel ’99 anche il Wu-Tang Clan entra a Rikers per esibirsi: si trattò di un autentico omaggio al loro membro Ol’ Dirty Bastard da qualche tempo in prigionia. Il concerto che si svolse nel cortile dell’edificio C-76 è stato rammentato in un’intervista del 2019 da RZA e Cappadonna. Negli anni Duemila tra i vari che son transitati, va rammentato il controverso Earl Simmons «DMX» di X Gon’ Give it to Ya che a seguito di un’infanzia e adolescenza a dir poco travagliata, nella stessa droga che lo spinse in prigione trovò la morte prematura nel 2021. Presenze di peso anche quella della regina Foxy Brown nel 2007, dell’aggressivo Bobby Shmurda nel 2015 e della stella venuta da New Orleans, il geniale Lil Wayne che sciolse in modo catartico la detenzione del 2010 nel libro Gone ‘til November, sorta di spartiacque della sua vita artistica.