Il governo ha i nervi a fior di pelle se da Ankara, dove Renzi ieri era in visita ufficiale, deve arrivare un avvertimento. Un sibilo: il voto in commissione «è stato considerato come un segnale politico. Di segnali politici ne parleremo in modo chiaro in assemblea». Renzi ce l’ha con la minoranza del suo partito che mercoledì, non da sola, ha mandato ben due volte sotto la maggioranza. L’eliminazione dei senatori a vita – questo stabiliscono i due emendamenti – è solo «un segnale», che sarà facilmente corretto quando il testo arriverà in aula.

Ma è un segnale di debolezza del governo, una debolezza sempre più palpabile. Il messaggio di Renzi doveva mettere la parola definitiva su uno scambio molto ruvido che si era nel frattempo consumato fra il sottosegretario Delrio e Massimo D’Alema. «Se la minoranza Pd vuole il voto, lo dica. Noi avanti fino al 2018», dice il primo. «È stupefacente che una persona ragionevole come il sottosegretario Graziano Delrio, nel giorno in cui escono i dati della produzione industriale con l’ennesimo segno meno a conferma della gravità della crisi del nostro paese, non trovi di meglio che minacciare i parlamentari. Delrio dovrebbe sapere che le riforme costituzionali sono materia squisitamente parlamentare e che i deputati e i senatori hanno il diritto e il dovere di cercare di migliorare testi che restano contraddittori e mal congegnati malgrado il notevole impegno della relatrice».

D’Alema mette il dito nella piaga. Sono i numeri a incaricarsi di svelare la debolezza dell’esecutivo nel portare l’Italia fuori dalla palude della recessione, non certo i trabocchetti parlamentari della minoranza. Gli stessi numeri ormai rivelano che la minaccia di un voto anticipato, che è ancora l’arma preferita degli ultra-renziani, è una pistola scarica. Sul paese incombe la spada di Damocle della verifica europea di marzo. E se anche Renzi preferisse andare al voto a maggio, insieme alle europee (Stefano Fassina ne è convinto), dovrebbe rinunciare all’intero pacchetto di riforme istituzionali. E le riforme vanno lente. A Montecitorio l’aula dovrebbe iniziare a lavorare – iniziare – il 16 dicembre. Al senato, dove è in commissione la legge elettorale, invece ieri si sono contati 12mila emendamenti depositati, 10mila solo dalla Lega, per smantellare il ’vecchio’ Italicum. Ne resteranno in piedi migliaia di meno (ieri sera scadeva il termine dei subemendamenti). Qui è spuntato un emendamento di due renziani e un giovane turco (cioè della sinistra renzista) che prevede, in caso di voto prima del 2016, il ritorno in vigore del Mattarellum. Qui la minoranza Pd (28 senatori) punta invece a condizionare l’entrata in vigore della legge elettorale dopo l’approvazione della riforma del senato. Eventualità per lo più scartata dai costituzionalisti (il governo per aggirare il problema ha proposto di far scattare la riforma dal 2016).

In ogni caso la situazione è confusa, il cammino è lungo e lento, e allo scavallo dell’anno incrocerà il rinnovo dell’inquilino del Colle. Su quanti fronti Renzi vuole ingaggiare il braccio di ferro? Forza italia chiede prima di tutto un accordo sul Colle, con qualche evidenza dalla sua: «Forza Italia è decisiva, senza i nostri voti Renzi si sgonfia, il suo governo non va da nessuna parte», ha strepitato ieri Renato Brunetta dal Mattinale. Le minacce di Renzi perdono progressivamente presa sulla minoranza Pd, per l’occasione di nuovo compatta. «È strano che il sottosegretario Delrio chieda alla minoranza se voglia le elezioni anticipate: fino ad ora sono stati esponenti che si dichiarano di assoluta fede renziana ad invocare il voto», spiega Vannino Chiti.

Certo, all’assemblea nazionale di domenica Renzi chiederà un voto solenne sulle riforme, che sarebbe un impegno quasi ineludibile per i gruppi parlamentari. Ma le minoranze hanno già sperimentato la via di fuga della non partecipazione al voto. Ed è stato Renzi stesso ad ammettere la libertà di coscienza sui temi di rilevanza costituzionale, come in qualche modo già previsto dai regolamenti dei gruppi parlamentari democratici. «Sulla costituzione, disciplina di partito, e, di fatto, vincolo di fiducia da parte del governo, non possono essere messi», ha avvertito ieri Rosy Bindi a Rainews24.

Ma il vero dubbio è un altro: con tutta la precarietà italiana che si sta rivelando sul fronte dell’economia; con tutto quello che sta affiorando dall’inchiesta Mafia Capitale, che certo non rafforza il segretario-premier, quale convenienza ha Renzi a radicalizzare lo scontro interno?