Oggi alle 15 Silvio Berlusconi, che ieri ha riunito il vertice forzista, darà il via libera alla riforma del Senato di fronte ai gruppi parlamentari azzurri in assemblea congiunta. Poco prima, probabilmente, scambierà quattro chiacchiere al telefono con Matteo Renzi (che per ora preferisce il colloquio telefonico al faccia a faccia, più gradito invece al partner azzurro). I due parleranno certamente del più dolente tra i nodi ancora irrisolti, la maggior o minore rappresentanza proporzionale delle regioni a seconda della loro popolosità, ma Berlusconi potrebbe anche spezzare una lancia a favore di Galan: non sarebbe un segnale riappacificante permettere il voto segreto e magari persino lasciare ai deputati del Pd libertà di coscienza? La risposta di Renzi, soprattutto sul secondo punto, non potrà che essere un no. Il che, tuttavia, non cambierà la disposizione positiva del socio contraente.

Di fronte ai suoi parlamentari, il cavaliere riconoscerà che nel disegno del governo parecchie cose non funzionano. Segnalerà che, in fondo, si tratta della prima lettura e di qui a ottobre c’è tempo per correggere o addirittura ripensarci. Però concluderà ripetendo quel che da settimane dice in privato: «Da questo processo noi non possiamo stare fuori».

«Come non si poteva stare fuori dal fiscal compact, e adesso tutti in Fi si chiedono perché mai lo abbiano votato. Come non si poteva dire no alla legge Severino», commenta caustico Augusto Minzolini, uno dei più determinati nel battaglione di parlamentari forzisti che la riforma proprio non la vorrebbero votare. Sono tanti. Il documento di Minzolini lo hanno firmato 37 senatori, ma basta chiacchierare con quelli che la firma non la hanno messa per verificare che la riforma non piace nemmeno a loro. Tra i deputati le cose non sono diverse. Le voci contrarie sono pesanti, vanno dal capogruppo Brunetta a Fitto. Se si piegheranno, e quasi tutti lo faranno, non sarà perché convinti dalle motivazioni del cavaliere ma per obbedienza. Quelle motivazioni, del resto, non sono confessabili. Per comprenderle bisogna leggere le dichiarazioni rilasciate ieri da un altro Berlusconi, Piersilvio, che riflettono, in questo caso con massima fedeltà, l’opinione dell’azienda. Quando Berlusconi jr. proclama di «stare con Renzi», dice che sull’asse con il fiorentino punta l’azienda, ed è un parere che conta molto più che quello del partito.

Non è detto che nell’assembleona di oggi ai “disssidenti” verrà offerta l’occasione di esternare dubbi e critiche. Forse dopo il suo intervento il gran capo darà la stura al dibattito, forse no. Sulla carta potrebbe anche far votare, ma è improbabile. In ogni caso, si tratterebbe di un gesto puramente simbolico. Con o senza dibattito, con o senza voto, Fi farà quel che vuole il suo proprietario. Con qualche eccezione, non si sa quanto numerose. Minzolini anticipa che lui comunque non accetterà di votare per disciplina: «Se non ci sarà dibattito mi alzerò e dirò al presidente che io comunque quel Senato non lo voto». Il capogruppo Romani affermava ieri che buona parte del dissenso rientrerà. In parte è vero, in parte no. Al momento 23 dei 37 firmatari restano decisi a non accettare il Senato non elettivo.

In commissione la battaglia è già persa. La presidente Finocchiaro procede a passo di carica e ancor più lo farà quando, col semaforo verde di Fi, sarà stato spazzato via l’ultimo ostacolo, che ha finora costretto ad accantonare gli emendamenti più importanti. Le cose potrebbero cambiare in aula, soprattutto se verrà avanzata da 20 senatori la richiesta di voto segreto sull’emendamento per il senato elettivo. Lì potrebbero esserci sorprese, anche perché il dissenso non è circoscritto alle aree di Pd e Fi: nell’Ncd senatori di peso come Qaugliariello, Azzollini e D’Alì sono per l’elettività. La concessione del voto segreto dipenderà però dal presidente Grasso, che ieri ha incontrato una delegazione del M5S come due giorni fa aveva visto la presidente del Misto-Sel De Petris. Di fronte alle proteste per l’accelerazione in corso, Grasso si è impegnato a fare presente il problema a Finocchiaro, ricordando però che la decisione spetta a lei. Sul voto segreto, invece, spetterà a lui l’ultima parola.

L’altro punto critico, quello dell’immunità, interessa più il governo che Fi, visto che ne va della popolarità decrescente (stando ai sondaggi) della riforma. «L’immunità potrebbe cambiare in aula», ha detto ieri la ministra Boschi. Ma senza aggiungere particolari.