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Riforma, non è finita ma quasi

Riforma, non è finita ma quasiLa ministra delle riforme Maria Elena Boschi – lapresse

La camera approva il disegno di legge di revisione costituzionale. Torna al senato, ma con poco spazio per modifiche e correzioni. Per l’esecutivo strada in discesa. E adesso tocca alla legge elettorale

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 11 marzo 2015

La presidente Boldrini, la ministra Boschi, il sottosegretario Scalfarotto, trenta deputati e nessun altro alle dieci alla camera, quando si aprono le dichiarazioni di voto sulla riforma costituzionale. Aula vuota, seicento assenti per una seduta che durerà solo due ore e mezza. Partenza lenta di una giornata non memorabile, eppure decisiva per la legge che riscrive 47 articoli della Costituzione. Epilogo (quasi) di trent’anni di chiacchiere, secondo la nota ricostruzione renziana offerta in replica dal vice Guerini. Per il voto i banchi si riempiono, e anche con il no di Forza Italia la riforma figlia del patto del Nazareno conquista una comoda maggioranza assoluta: 357 sì.

Ai governativi mancano una quarantina di voti; 21 sono del Pd dove in tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), 7 sono assenti giustificati e 11 non partecipano perché in dissenso. Una minoranza, questi ultimi, della minoranza; il dissenso era stato più forte al senato nel primo passaggio sette mesi fa. La gran parte dei bersaniani vota sì: riconoscono nella riforma un pericoloso «cambiamento profondo della forma di democrazia parlamentare» (Bindi) eppure valutano che «non si può far fallire il percorso» (Cuperlo). Dicono un altro sì, ma assicurano che «è l’ultima volta» se «non si riaprirà il confronto» se «non ci sarà equilibrio» con la legge elettorale. Cioè l’Italicum che Renzi ha detto e ripetuto di non voler cambiare.
Due spicchi dell’emiciclo restano vuoti anche al momento del voto, sono quelli del Movimento 5 Stelle che non rinuncia all’Aventino. Appare solo il delegato Toninelli e la sua dichiarazione di voto comincia con «fascisti» e finisce con «disonesti». Ma in mezzo ha una citazione importante: le parole di fuoco contro la riforma costituzionale imposta dal governo Berlusconi, discorso del 2005 di Sergio Mattarella. Sel invece torna in aula, deputati e deputate quando con una mano votano (no) con l’altra alzano una copia della Costituzione. Ora la legge costituzionale torna a palazzo Madama. Se il senato approverà l’identico testo della camera, da ieri si possono cominciare a contare i tre mesi di «pausa di riflessione» prima che Montecitorio possa dare l’ultimo sì a maggioranza assoluta: dunque nel caso più favorevole al governo il 10 giugno.

È difficile, dal momento che ci sono le elezioni regionali dietro l’angolo: saranno giorni di contrapposizioni accese e di pause nei lavori parlamentari. Ma non impossibile, visto che al senato spetta adesso un compito assai limitato. Solo gli articoli che la camera ha modificato rispetto al testo votato dai senatori potranno essere rimessi in discussione. E solo gli emendamenti strettamente legati alle novità potranno essere ammessi. È direttamente il regolamento dell’assemblea a rispondere alle speranze eccessive della minoranza Pd. Meglio dimenticare da subito gli «ulteriori miglioramenti al testo di riforma costituzionale» in cui dicono di confidare i bersaniani. I senatori potranno rimettere mano solo a una decina di articoli. Il doppio voto conforme esclude modifiche alla composizione del nuovo senato, alla modalità di elezione di secondo livello, alla gratuità del mandato, al fatto che la fiducia sarà votata solo alla camera, al potere di iniziativa legislativa, al nuovo quorum del referendum… C’è spazio solo per rivedere le funzioni di quello che sarà il nuovo senato e per poche altre questioni. Alcune effettivamente migliorate dalla camera, dunque da maneggiare con cura: le regole del procedimento legislativo, le modalità di elezione dei giudici costituzionali, la possibilità di esame preventivo della Consulta sulla leggi elettorali. Altre al contrario modificate solo in apparenza, come i quorum per l’elezione del presidente della Repubblica e per la dichiarazione di stato di guerra: due passaggi delicati che restano sostanzialmente nella disponibilità del primo partito. Sarà possibile anche intervenire sugli elenchi delle materie di competenza statale e di competenza regionale, le modifiche della camera sono state all’insegna del centralismo.

Ma a questo punto sarà più facile sabotare la riforma che correggerla. Ecco allora l’incognita: visti i numeri del senato, se Berlusconi non rientrerà nella partita e i suoi lo seguiranno ancora, i dissidenti del Pd (che ad agosto furono 16) potrebbero essere decisivi. La trattativa si giocherà in parallelo con l’Italicum che dopo le regionali dovrebbe approdare alla camera. Renzi vuole che sia approvato definitivamente a Montecitorio, ma è una legge che, accanto ai difetti strutturali, contiene un certo numero di errori tecnici che andrebbero (almeno quelli) corretti. La minoranza Pd dovrebbe però muoversi tra camera e senato in maniera compatta. Quello che è successo ieri porta a escluderlo.

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