Dovremmo affrancarci dalla tendenza del nostro tempo a personalizzare le opere d’arte o letterarie, che invece dovrebbero essere sempre giudicate al netto delle vicende che le precedono, o che vi stanno attorno, e dei loro autori. E tuttavia è difficile resistere al dato anche biografico e soggettivo davanti alla raccolta poetica d’esordio di Gerardo Masuccio, Fin qui visse un uomo (Interno Poesia, pp. 116, euro 12): Masuccio è molto giovane, essendo nato nel 1991, e giovane e puro è il suo sguardo, che ci interpella dalla foto sulla copertina (questo del resto è un elemento grafico che caratterizza tutte le opere di Interno Poesia – la foto dell’autore sulla copertina, appunto, per una scelta però che non risuona mai di esibizionismo, bensì di pura e semplice onestà, di testimonianza immediata e diretta). Nella fattispecie non si tratta di far prevalere il volto o la suggestione sull’opera, perché Fin qui visse un uomo è una raccolta in sé stessa perfetta, compiuta, matura: indipendentemente da ogni altra considerazione. Solo, si tratta di una maturità ancora più sorprendente in relazione alla giovane età dell’autore. D’altronde Masuccio ha due lauree alle spalle e riveste ruoli già di primo piano nell’industria culturale, in particolare come responsabile della collana CapoVersi di Bompiani e come redattore di una rivista importante quale «Atelier»; e forse allora nel suo caso la celebre regola di Rilke, secondo la quale bisogna aver molto vissuto per scrivere anche un solo verso, subisce a ragione una deroga o un’anticipazione.

PER LA VERITÀ Rilke diceva anche che non basta aver vissuto molte esperienze: bisogna anche dimenticarle, ed elaborarle. Ed ecco, la perfezione e la compiutezza di Fin qui visse un uomo consistono proprio in questo, ovvero nella distanza che Masuccio riesce ad assumere rispetto a ciò di cui parla: tutte le poesie della raccolta sono intessute di una sostanza emotiva molto calda, che potrebbe indurre a derive o sentimentalismi, eppure questo non succede mai. In una parola potremmo parlare di «misura», in una duplice accezione: formale, perché i versi sono sempre equilibrati nel loro incedere, ritmato da una musicalità piana ma quasi cantata (anche in virtù delle frequenti allitterazioni); sostanziale, perché il discorso, anche quando è più esplicitamente intimo, conserva comunque un respiro largo, fosse anche solo per una clausola finale che gli conferisce un senso assoluto. Pensiamo ad esempio alla poesia sulla madre, dal sapore tutto domestico fino ai due versi conclusivi: «un ricordo non teme la morte/ ma sfida la vita». Oppure alla poesia aperta da una confessione, di aver «reso le armi alla vita», ma chiusa poi da una presa d’atto poco meno che sapienziale: «È il solo trionfo/ che nutra l’onore di un uomo:/ l’idea che abbia perso da sempre,/comunque egli viva».

GIUSTAMENTE Giovanna Rosadini, nella prefazione, definisce quella di Masuccio una poesia «ad alto tasso riflessivo-filosofico … per la quale si potrebbe parlare di post-esistenzialismo»; ma il tono filosofico non degrada mai in supponenza, ed è anche questa una forma di misura. Masuccio non offre certezze; semmai dichiara sofferenze, inquietudini, disagi.
Il vero protagonista della raccolta sembra il «tempo», inteso non solo nel suo ineluttabile trascorrere ma anche nel suo incarnarsi in presenze vive e corporee, che contro quella ineluttabilità rappresentano l’unica possibile salvezza, senza la quale rimarrebbe solo un «tormento» privo di scampo (da questo punto di vista Fin qui visse un uomo potrebbe essere parente stretto di un romanzo a sua volta appena uscito, Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli). Non importa a quale tempo appartengano queste presenze, e chi siano: il padre, la madre, gli amici, la persona amata. Quel che conta è la loro capacità, nel dare un corpo all’amore, di esaudire una preghiera laica di senso, alla quale altrimenti, ora e qui, nessun «dio» potrebbe rispondere. Laura, forse, più di tutti: «È guardandomi allo specchio/ coi tuoi occhi», leggiamo in una delle poesie più belle, «che ho saputo risolvermi; ero cieco/ e non volevo vedere».