Considero un componimento poetico di intonazione civile o, vogliam dire, politica di Pietro Ingrao che può risultare per molti aspetti singolare o, quanto meno, inaspettato. Lo si legge nella raccolta L’alta febbre del fare, pubblicata nel 1994 nella collana mondadoriana de «Lo Specchio». Mi riferisco a Utilità delle rane. Si tratta di una poesia difficile da intendersi, per un suo aspetto che potresti dire di rebus. Le immagini che vi si combinano tengono più del contrasto che del contrappunto. Nell’accostamento le parole, pur nel rigoroso costrutto sintattico, non paiono derivare l’una dall’altra secondo svolgimenti coerenti. Anzi, al contrario, si urtano, quasi Ingrao si ingegni a perseguire accostamenti scelti proprio perché incongrui, congiungimenti che, come in uno iato, valgono quali rotture e reciproche disconnessioni. Abbinamenti, allora, tali da suscitare non solo una meraviglia che può apparire di facile maniera, ma tali da ingenerare il sospetto d’un esercizio gratuito. Ma poi, a una meditata lettura, avverti che Utilità delle rane, per la compattezza del dettato e la forza figurale, mentre produce un iniziale effetto di spiazzamento, invita all’intelligenza delle discordanze, obbliga a recepire il testo nelle sue lampanti incongruenze, tanto da costringere il lettore ad assumerne il portato di senso che racchiudono. Decifrazione. Si torna così alla dimensione del rebus come un combinato da decrittare, assegnando alla mera evidenza o banale ovvietà di questa o quella singola componente una significazione riposta, mascherata. Utilità delle rane acquista il suo significato nella relazione intima che le sue componenti esibiscono una volta decrittate, tolte dalla guaina enigmatica che risaltava ad una prima impressione. Significati che si affermano nello svolgersi dei collegamenti: non nell’‘urto’ (che si rivela allora solo apparente, di superficie); e non nell’‘incongruo’ (che risulta invece, al contrario, conciliabile e compatibile).

Trascrivo Utilità delle rane: «Apprendemmo cadenze/e saziata l’eterna fame,/ascesi al millesimo/piano, da cubi scrutare/rane nei rigagnoli arrampicarsi/a rozzi cieli/donde minacciare noi del millesimo,//allo scendere della cena,/da volubili lumi,/l’angelo quotidiano/cantarci l’inno del tepore di rane/allevate in rigagnoli:/civile cibo umano, senza tanto rumore». Propongo, avvalendomi di confronti e richiami con locuzioni ed immagini consuete e ricorrenti nell’opera poetica di Ingrao, una decifrazione che giudico attendibile di Utilità delle rane. Apprendemmo cadenze (ci fornimmo, noi, i ‘dannati della terra’, d’una visione del mondo, d’una adeguata consapevolezza che era scritta, partecipata, condivisa); e saziata l’eterna fame, (e usciti da uno stato di elementare sopravvivenza, fattici valere come coscienza di classe organizzata); ascesi al millesimo/piano, (in possesso di riconosciuti diritti); da cubi (nella costrizione di spazi urbani e abitativi, in città che non ci corrispondono); Scrutare/rane (osservare un’umanità alienata); nei rigagnoli arrampicarsi (affaticata senza costrutto nelle deiezioni delle sub culture e della falsa coscienza, alimentata da culture di risulta, subalterne); a rozzi cieli (volta a bisogni e consumi, a ideali, progetti e sogni volgari, manipolati, indotti, preconfezionati); donde minacciare noi del millesimo, (con tali manipolate idee opporsi a noi, a contrastare il nostro impegno per la dignità e la libertà degli uomini); allo scendere della cena, da volubili lumi, (alla fine della nostra giornata davanti agli schermi della televisione); l’angelo quotidiano (l’annunciatore dei notiziari); cantarci l’inno del tepore di rane (esaltare il conforto, la conciliazione, il benessere la soddisfazione che sarebbero il privilegio di un’umanità omologata); allevate in rigagnoli: (cresciuta nel piccolo tornaconto senza orizzonte: non mare, non lago, non fiume, ma rigagnolo: che vale la scolatura, la risulta che assicura i consumi previsti, un campare garantito come avviene negli allevamenti industriali); civile cibo umano, (al contrario questa la nostra cena, l’alimento di conoscenza e di umana consapevolezza); senza tanto rumore (da assumere lontano dal rumore di fondo che da mane a sera è l’inno continuo declamato alle rane).