La raccolta differenziata obbligatoria dei rifiuti tessili è partita in sordina dal primo gennaio. In realtà, potrebbe non partire se il governo decidesse in extremis di farla slittare di un anno come chiesto da Anci per mancanza di linee guida dal ministero della Transizione ecologica. Ma se davvero partisse, i Comuni non avranno target da raggiungere né sono previste sanzioni. Non è quello che si dice un bell’inizio.

Prevista dal Pacchetto Economia Circolare (Direttiva UE 2018/851), la raccolta differenziata obbligatoria dei rifiuti tessili potrebbe segnare un punto di svolta per la creazione di una vera filiera del riciclo che in Italia, come negli altri paesi europei, quasi non esiste, fatta salva l’eccezione di Prato che però importa gran parte dei materiali da avviare al riciclo: delle 480 mila tonnellate di rifiuti tessili, di cui 157 mila raccolti con la differenziata, solo 80 mila tonnellate, cioè il 16,8% viene recuperato come materia prima seconda (dati Italia del Riciclo 2021) e si stima che solo il 5% venga riutilizzato, cioè rivenduto sul mercato dell’usato.

Secondo l’Ispra, il 5,7% dei rifiuti indifferenziati è composto da tessili: se venissero tutti intercettati dalla differenziata, se ne potrebbero recuperare oltre 650 mila tonnellate, più del quadruplo di quanto si è riusciti a fare fino ad ora con una raccolta poco più che volontaristica. Le potenzialità sono evidenti: quello che manca è una filiera del riciclo, che consenta il recupero di materia degli abiti non più utilizzabili per destinarli a nuove produzioni.

NEGLI ULTIMI ANNI LA MONTAGNA DI RIFIUTI tessili è cresciuta in modo spropositato: rispetto al 2010, c’è stato un aumento del 39%, in parte perché è stato migliorato il sistema della raccolta, ma soprattutto per il fenomeno della fast fashion, la moda veloce che inonda gli scaffali di prodotti a basso-bassissimo costo, rinnova mese dopo mese le collezioni, cambia continuamente stili, colori, fogge: oltre a generare molto invenduto, rispetto a 20 anni fa, il tasso di utilizzo degli abiti si è dimezzato.

Se compriamo di più e indossiamo meno a lungo, il risultato non solo va a ingrossare i cassonetti bianchi o gialli, ma ha effetti devastanti per l’ambiente. Secondo il Piano d’azione per l’economia circolare della Commissione Ue, il tessile globale è il quarto settore per maggior impiego di risorse primarie (dopo alimentare, costruzioni e trasporti) e il quinto per emissioni di gas serra (circa il 10%, quindi più della somma delle emissioni di navi e aerei). L’Agenzia Europea per l’Ambiente ritiene che la produzione tessile sia responsabile del 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile per l’uso di prodotti chimici nelle operazioni di tintura e finissaggio dei capi, mentre il lavaggio degli abiti sintetici rilascia nei mari mezzo milione di tonnellate di microfibre ogni anno.

PER RIDURRE QUESTO IMPATTO AMBIENTALE vanno ridotti i volumi, e per ridurre i volumi vanno responsabilizzati i produttori. Secondo Andrea Fluttero, presidente di Unirau (Unione imprese raccolta riuso e riciclo abbigliamento usato), «cambiamenti significativi si avranno con l’introduzione in Italia di un regime EPR (responsabilità estesa del produttore) che dovrebbe essere avviato quest’anno grazie al quale saranno i produttori e gli importatori a doversi occupare della raccolta post-consumo, del trasporto, della logistica, del riutilizzo e del riciclo. Un sistema che sarà sostenuto da un eco-contributo come già succede per i rifiuti RAEE e gli pneumatici, per esempio».

Per Antonio Pergolizzi, analista ambientale per Ref_Ricerche, tra i curatori di un position paper sui rifiuti tessili, «quello che manca in Italia è una regia nazionale, una visione politica, la capacità di capire che avviare il riciclo non è un problema per il nostro paese che ha già tecnologia e know-how, semmai un’occasione di sviluppo. Il settore pubblico potrebbe aiutare a costruire e sostenere una filiera del riciclo tutta italiana con l’introduzione dei Cam, i Criteri ambientali minimi nelle gare d’appalto pubbliche. Oggi il riciclo fatto in Italia non è economicamente sostenibile. Ma che senso ha far fare ai rifiuti tessili il giro del mondo per poter essere riciclati?»

LA SITUAZIONE NON È DIVERSA nel resto dell’Ue, tanto che i ministri dell’Ambiente di undici Paesi europei hanno chiesto un deciso cambio di passo e misure urgenti per il settore in una lettera indirizzata al vicepresidente della Commissione Frans Timmermans. I ministri sono quelli di Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Finlandia, Francia, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Spagna e Svezia – sono quasi tutte donne – ma il nostro Roberto Cingolani non è tra loro.

Affinché l’Ue possa diventare un leader competitivo nei materiali tessili secondari, i ministri chiedono l’introduzione di obiettivi «chiari, incrementali e ambiziosi» su raccolta, riuso e riciclo di rifiuti tessili, considerato che «nell’Ue entrano grandi quantità di prodotti tessili non adatti per essere riparati e riciclati», per esempio tessuti composti da filati misti oppure che contengono tracce di prodotti chimici pericolosi (PFAS, ritardanti di fiamma polibromurati e altri inquinanti organici persistenti) ammessi in luoghi di produzione diversi dall’Ue.

Nella lettera si invita la Commissione a valutare l’intero ciclo di vita dei tessili per stimolare la produzione e l’uso di sostanze chimiche, materiali e prodotti che siano sostenibili sin dalla fase di progettazione, criteri che devono valere anche per i prodotti importati (anche via commercio elettronico). Serve più ricerca e investimenti ma anche «politiche per influenzare il comportamento dei consumatori e informarli sugli impatti ambientali e sociali».

Tra gli strumenti da adottare viene indicato il passaporto digitale che fornisca dati su origine e composizione dei tessuti, comprese eventuali sostanze chimiche pericolose, su durabilità, possibilità di riuso, riparazione, smontaggio ed etichette obbligatorie che informino in modo chiaro e comprensibile sugli impatti ambientali degli abiti al momento dell’acquisto.

GLI UNDICI STATI NON TRASCURANO il problema della distruzione degli invenduti, cioè di abiti, scarpe e accessori mai utilizzati, considerata «inaccettabile»: per contrastare questa pratica – figlia della sovraproduzione soprattutto delle grandi griffe, che però si rifiutano di disfarsi delle rimanenze nei canali di seconda mano – si chiede di obbligare i produttori a fornire dati sull’invenduto e a specificare le azioni che intendono intraprendere per prevenire lo smaltimento. In Francia hanno già deciso: sarà vietato distruggere la merce invenduta a partire dal 2023.