Per il «rieccolo» Claudio Durigon la panchina è finita, ora può tornare in campo. Giusto un annetto di purgatorio, e quel posto da sottosegretario che era stato costretto a lasciare nell’agosto del 2021 è di nuovo suo: non all’Economia ma al Lavoro, giusto una piccola retrocessione. Se n’era andato gridando di essere stato frainteso poco più di un anno fa, perché durante un comizio a Latina aveva chiesto che il parco comunale tornasse a prendere il nome di Arnaldo Mussolini, e non più quelli di Falcone e Borsellino.

Per lasciare il prestigioso posto al Mef ci aveva impiegato quasi tutto agosto, Salvini lo aveva difeso fino all’inverosimile, decisiva era stata la spinta di Giorgetti con la sponda dell’allora premier Draghi. Oltre che delle mozioni di sfiducia che M5S e Pd avevano in cantiere. Fu anche uno dei capitoli della guerra dentro la Lega tra draghiani (Giorgetti) e salviniani, con il leader che finì per perdere la partita.
Cosa è cambiato da allora? Nulla in realtà sull’incompatibilità tra quelle parole di elogio ad Arnaldo Mussolini e un ruolo di governo. È cambiato solo che ora i busti del duce ce li ha in casa il presidente del Senato, e dunque a chi importa della proposta di intitolazione di un parco fatta più di un anno fa?

E infatti ieri non è volata una mosca da parte di quei partiti (ora all’opposizione) che allora misero il sottosegretario leghista nel tritacarne. Salvini ha onorato la sua promessa con l’amico (e factotum della Lega nel Lazio), è servita solo un po’ di pazienza e la riabilitazione è arrivata. Per Meloni, che ieri nella stessa conferenza stampa ha letto il nome di Durigon e ha ribadito nuovamente la sua fedeltà al magistero di Falcone e Borsellino (per spiegare il decreto sul carcere ostativo) un problema di coerenza di porrebbe. Evidentemente no: la ragazzina spinta all’impegnmo politico dal sangue delle stragi del 1992 non trova imbarazzante nominare un sottosegretario che voleva togliere i nomi dei due giudici per metterci quello del fratello di Mussolini.

Un anno fa Durigon se ne andò parlando di «errore di comunicazione», accusando i «professionisti della strumentalizzazione» e dicendo che la sua unica colpa era aver «ricordato la bonifica dell’Agro pontino, di cui sono figlio». Ma ora tutto è perdonato. Così come è passata in cavalleria la divisa da nazista che nel 2005 indossò, per un addio al celibato, il neo viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami. Lo stesso Bignami che, nel 2019, pubblico un video su Facebook in cui indicava i nomi degli stranieri sui campanelli di alcune case popolari di Bologna. Tutto dimenticato. O meglio: nell’Italia di Meloni queste, per lui e Durigon, ora sono medaglie al merito.