Da qualche giorno, in alcuni ambienti, si va definendo una precisa interpretazione del ruolo che il neo-leader laburista Starmer e Joe Biden hanno, e devono avere, per la sinistra. A prescindere da un’obiettiva descrizione di cosa i due leader effettivamente rappresentino, si parla di fenomeni esteri per parlare alla «sinistra» italiana.

La tesi che si discute sempre più spesso consiste nella ripresa dei temi cari alla destra radicale globale: «Famiglia, comunità e sicurezza» e nell’isolamento delle frange radicali della sinistra. Un vero e proprio progetto di stabilizzazione. Non ci si propone di ridefinire i termini, cambiarne la sostanza. Bisogna piuttosto riprendere il voto bianco e operaio che vota a destra e, dato che politiche troppo redistributive sarebbero egualmente «populiste» – ossia sbagliate -, il populismo può essere inseguito sul terreno dei «valori».

All’insegna di un riconoscimento del bisogno di protezione di una classe operaia che vive solo di «valori morali» e risentimento, bisogna quindi recuperare il «patriottismo», il «rispetto delle tradizioni» e la «lealtà alla comunità e alla nazione». La restaurazione va fatta quindi con un surplus di maschilismo e nazionalismo bianco, mentre i rapporti di forza economici non vanno modificati e migranti e minoranze vanno tenuti «al loro posto».

Si dice che il popolo è stato abbandonato, mobilitando termini ormai spesso svuotati di significato e logorati dal loro cattivo uso, quali «neoliberismo» e «globalizzazione». Ma soprattutto, si sostiene – ad esempio nelle interpretazioni proposte da Mark Lilla pubblicate da diversi media italiani – che le politiche dell’identità, concentrandosi su donne, omosessuali, minoranze religiose e stranieri, abbiano perso di vista la classe operaia maschile e bianca. Non contano le trasformazioni dell’economia e della composizione di classe.

Ad ogni modo, la retorica sui macrofenomeni economici non ha conseguenze, perché viene neutralizzata dall’attacco a chi cerca di prendere sul serio le condizioni di spossessamento e precarietà dei molti. Resta la guerra culturale, che in realtà cela una guerra di potere. Minoranze e soggettività non conformi vanno disciplinate. E l’economia deve continuare a girare allo stesso modo, con o senza la patina progressista.

Quello che emerge è una riproposizione del carattere autoritario del neoliberismo – alla faccia della tesi sulla fine del «neoliberismo progressista» proposta da Nancy Fraser -, che separa e riduce i diritti e mantiene le gerarchie di classe, genere e «razza». Non a caso, diversi politici sostengono che Macron sia il modello a cui ispirarsi nella lotta contro il populismo. Il campo politico che si vuole conservare è il seguente: un autoritarismo multilaterale, tecnocratico e centrista – non meno attento ai valori occidentali e al disciplinamento delle minoranze e degli stranieri – contro uno più marcatamente nazionalista, xenofobo e sessista.

Un po’ di spesa pubblica in più è garantita dal momento pandemico che richiede strumenti eccezionali, ma l’eccezionalità deve rimanere tale. O se anche si dovesse mantenere un maggior ruolo del welfare, questo andrebbe definito in termini residuali, razziali e familisti. A margine, lievi variazioni sul livello di distribuzione della ricchezza, preferibilmente da assegnare secondo la «priorità nazionale».

Stefano Rodotà, nel suo Il diritto di avere diritti, scriveva che «lo scambio tra un allargamento dei diritti sociali e la cancellazione di quelli civili e politici» fosse tipico dei regimi autoritari. Al contempo, continuava, le democrazie neoliberali sono portate spesso a sospendere e comprimere i diritti sociali considerandoli privilegi. Questo a fronte di una trasformazione del welfare in workfare e prisonfare, con la trasformazione delle questioni sociali in termini di sicurezza e ordine pubblico. Fuori da questa dicotomia, emerge l’esigenza di un riconoscimento dell’indivisibilità dei diritti e la consapevolezza che i diritti non sono mai dati per sempre.