Sembra sempre più evidente lo scollamento tra i risultati dell’analisi delle istituzioni internazionali e le politiche adottate e/o sostenute dai loro esponenti rappresentativi sul piano politico. Nell’ultimo mese, sia l’Ocse sia il Fondo monetario internazionale (Fmi) hanno pubblicato due rapporti sulle disuguaglianze economiche, le loro cause e gli effetti che derivano dal loro aumento in termini anche di crescita economica.

Il rapporto dell’Ocse ha evidenziato che l’aumento delle disuguaglianze inizia ben prima della crisi economica ed è fortemente legato alla liberalizzazione del mercato del lavoro, che di fatto ha impoverito i lavoratori, non soltanto quelli meno istruiti. Poi la crisi e l’austerità hanno rincarato la dose: all’aumento della disoccupazione, i governi hanno risposto con il nefasto connubio tra riforme strutturali, tagli alla spesa sociale e aumento della tassazione a danno proprio dei lavoratori e, più in generale, dei ceti più deboli della popolazione. I ricchi, intanto, aumentavano la propria quota di reddito e ricchezza indisturbatamente. Non soltanto maggiori disuguaglianze, l’austerità riduce anche la crescita.

Ma attenti a perseverare con il mantra della crescita perché, ci ricorda l’Fmi, la crescita non è uguale per tutti e questo può avere un effetto sulla prosperità di medio e lungo periodo. In particolare, un aumento dell’1% del reddito del quintile (20%) più ricco della popolazione comporta una riduzione della crescita di circa lo 0.8%. Al contrario, se aumentassero i redditi del 20% più povero della popolazione, allora si avrebbe un effetto positivo sulla crescita complessiva di circa lo 0.38% del Pil.

Un aumento più contenuto, ma sempre positivo, si avrebbe nel caso in cui aumentassero i redditi di quella che viene identificata comunemente come la classe media, cioè coloro che si trovano al centro della distribuzione del reddito. Gli studi dell’Fmi e dell’Ocse convergono: bisogna aumentare la quota dei redditi da lavoro della metà più povera della popolazione, ma rendere il welfare più equo in termini di sostegno al reddito, istruzione, sanità, beni pubblici.

Crollano trent’anni di falsa coscienza, nonostante il dominio dell’opinione pubblica sia ancora in balìa dei portavoce del pensiero unico, come Alberto Alesina, che elogiano le disuguaglianze e il merito, dimenticando che il merito, in una società diseguale, non esiste se non come retorica per preservare lo status quo. Il merito, e soprattutto i premi al merito in termini di retribuzione, status sociale e ricchezza sono frutto della posizione economica e sociale dei genitori, del contesto in cui si vive.

E mentre il mainstream continua a raccomandare che le imprese siano ricompensate generosamente quando innovano, basta ricordare che queste imprese hanno «fatto leva su un settore pubblico strategico, disposto a farsi carico dei rischi e delle incertezze maggiori lavorando fianco a fianco con un settore privato disposto a reinvestire i suoi profitti nelle aree “a valle”», come ricorda Mariana Mazzucato. La ricchezza prodotta va redistribuita tra tutti gli attori attraverso più alti salari, ma anche tasse sui profitti, che nulla hanno a che fare con l’esproprio della ricchezza privata, proprio perché quella ricchezza, se esiste, è collettiva.

È evidente ormai che la lotta alle disuguaglianze non può essere delegata a chi la giustifica o ne genera, attraverso la politica, i meccanismi di fondo che la alimentano. Una società più equa, più giusta deve ricominciare a essere l’obiettivo politico, anche in Italia, di una narrazione differente e contro-egemonica.