Qualcuno nei social li chiama «Sheikh Jarrah Five», come una pop band, come i mitici «Jackson Five». Sono Mahmoud Salhiye e gli altri quattro membri della sua famiglia che la polizia israeliana due giorni fa, presentando ricorso contro la loro scarcerazione, ha di tenere in prigione per una notte, pur sapendo che i giudici avrebbero ordinato la loro liberazione. Ieri pomeriggio gli «Sheikh Jarrah Five» sono usciti dal comando di polizia a Gerusalemme e hanno trovato ad accoglierli amici, parenti, giornalisti e decine di attivisti, non pochi dei quali israeliani. Abbracci, strette di mano e tanta solidarietà. I Salhiye non avevano commesso alcun reato, come hanno constatato gli stessi giudici israeliani. Si erano soltanto opposti, senza violenza, alla demolizione della loro casa a Sheikh Jarrah compiuta nella notte tra martedì e mercoledì dalle ruspe inviate dal comune di Gerusalemme con la scorta di decine di agenti di polizia.

«Non smetterò di reclamare i miei diritti di palestinese e di essere umano. Nel 1948 Israele aveva portato via a mio nonno la casa che aveva ad Ein Kerem, ora la toglie a me. Un giorno ricostruirò la mia abitazione di nuovo a Sheikh Jarrah, la giustizia prevarrà», ha promesso Mahmud Salhiye tra gli applausi dei presenti. Nel frattempo, sarà costretto a dare un nuovo tetto alla sua famiglia, in periferia e pagando un affitto salato, perché trovare un appartamento libero nella Gerusalemme araba è una impresa. Il comune ai palestinesi concede con il contagocce i permessi, sempre individuali e mai per progetti edilizi di ampie dimensioni, e migliaia di famiglie negli ultimi venti anni hanno costruito la loro casa senza autorizzazione pur di rimanere nei confini municipali e non perdere la residenza in città.

Le distruzioni da parte del comune di case «abusive» sono parte della vita palestinese a Gerusalemme est. Lo sgombero di mercoledì è stato almeno il decimo caso di sfratto o demolizione dall’inizio dell’anno e uno degli oltre 1.000 dall’inizio del 2016, secondo i dati delle Nazioni Unite. L’amministrazione comunale nega che i pochi permessi concessi siano parte di una politica volta a cacciare via i palestinesi dalla città. Anzi, afferma di aver approvato tre anni fa una legge che renderebbe più facile agli abitanti di Gerusalemme Est ottenere le autorizzazioni edilizie. Tuttavia, il costo dei permessi resta esorbitante e i palestinesi, la maggior parte dei quali è a basso reddito, non hanno i mezzi per versare quanto chiede il comune.

Il clamore fatto della demolizione dell’abitazione dei Salhiye – riferita con evidenza da media internazionali autorevoli come il New York Times e volutamente sottovalutata o ignorata da buona parte di giornali e agenzie italiane – potrebbe aver allontanato, forse per mesi, lo sgombero delle prime quattro delle 28 famiglie palestinesi che a Sheikh Jarrah rischiano di essere cacciate via dalle loro case su iniziativa «legale» di gruppi israeliani legati ai coloni e all’estrema destra.