Nebbie tenaci, foreste, acque precipitose, altopiani chiusi tra le vette delle Ande ecuadoriane: là sorge Cocuán, il villaggio dove Natalia García Freire – nata nel 1991 a Cuenca, città coloniale aggrappata alla Cordigliera – ha ambientato Hai portato con te il vento, il suo secondo romanzo che, nella traduzione di Lara della Vecchia (pp. 132, euro 16 ), viene ora pubblicato da Sur, dopo Questo mondo non ci appartiene, il fortunatissimo libro d’esordio. Cercare questo singolare paesetto sulle mappe di una regione splendida e remota, asilo di una biodiversità sempre più minacciata dalle attività estrattive e dalle imprese petrolifere, sarebbe però inutile: Cocuán, infatti, è un luogo immaginario che si inserisce a pieno titolo nella cartografia letteraria cui appartengono Comala, la cittadina fantasma del Pedro Páramo di Juan Rulfo, o Macondo, ilvillaggio creato da García Márquez, o Santa María, che fa da sfondo ai romanzi di Juan Carlos Onetti.

NOVE LE VOCI NARRANTI: altrettanti personaggi si appropriano ciascuno di un capitolo per narrare il passato e il presente di Cocuán, tra storie, memorie e testimonianze diverse che confluiscono però in un unico universo narrativo, accumulando via via brandelli di informazioni da ricomporre come in un puzzle delirante, incompleto e aperto a ogni interpretazione. La prima a raccontare è Mildred, accompagnata alla nascita da un vento tiepido «che non ha paura» e calma il bestiame; morta la madre e scomparso il padre, verrà privata di casa, terra e animali dalla gente del villaggio, sobillata dal parroco Santamaria che teme e desidera quella ragazzina diversa da tutte le altre, coperta di piaghe eppure fatta di luce.

Rinchiusa a forza in convento, dove il prete abuserà di lei ogni notte senza riuscire davvero a sottometterla, Mildred è all’origine di una leggenda che la trasfigura in Diomadre, potente simbolo di un mondo arcaico, ed è la sua maledizione, anni dopo, a scatenare il vento che si impadronisce di buona parte dei paesani e li induce a un esodo inesplicabile.
Ansiosi di ristabilire lo status quo, i pochi abitanti rimasti andranno a cercarli, riunendo in un gruppo grottesco e febbrile corpi spesso deformi e voci che ululano, balbettano o sussurrano: Agustina, la cenciosa curandera; Manzi, prete tormentato; Ezequiel, la furia fatta bambino; Baltazar l’usuraio; Victor, che si pensa donna e sogna di partorire, ma può raccontarlo soltanto alle stelle; Filatelio, ritardato e profetico.

Con una prosa magnetica e cruda, alternando la prima, la seconda e la terza persona, servendosi di frasi brevi e di un linguaggio connotato da una sorta di lirismo brutale, García Freire affronta la violenza che nasce da secoli di ingiustizie e spoliazioni, i misteri di un paesaggio implacabile, la presenza degli animali come soggetti e alter ego, e soprattutto la tensione tra le culture ancestrali e una religione «straniera» che promette salvezza ma si fa strumento di controllo e oppressione, sovrapponendosi come una crosta sottile a un antichissimo senso del sacro.

A PROPOSITO di Hai portato con te il vento, c’è chi ha parlato di realismo magico (eterno spettro che perseguita la letteratura latinoamericana, o che viene evocato, per puro riflesso pavloviano, da chi la frequenta distrattamente), oppure di gotico andino, ma entrambe le etichette appaiono sbrigative e non tengono conto di altri e più articolati punti di riferimento. Uno è indubbiamente il prodigioso Eisejuaz dell’argentina Sara Gallardo, monologo fratturato e oscuro di un indio visionario, mentre l’attenzione per le radici indigene, il meticciato e la condizione femminile fa pensare a un classico ecuadoriano come Bruna, soroche y los tíos di Alicia Yáñez Cossío, anche lei profondamente legata al territorio andino. García Freire, inoltre, confessa una spiccata predilezione per autori come Shirley Jackson e László Krasznahorkai, la cui influenza si mescola a quella di scrittori che, pur con profonde differenze stilistiche, coltivano tematiche affini alle sue, dagli ecuadoriani Monica Ojeda e Gustavo Faverón, alle boliviane Giovanna Rivero e Liliana Colanzi.
Quale che sia l’humus profondo e composito in cui affondano le radici del romanzo, il lettore disposto a inoltrarsi nel magma onirico di Hai portato con te il vento non tarderà a riconoscervi, oltre a un’orrorifica allegoria della sopraffazione coloniale, l’esplicito tentativo di ricomporre un’identità spezzata.