Le scosse del terremoto del 4 marzo di un anno fa sono ancora presenti e pesanti. Ma dopo un’esperienza di governo iniziata male e finita peggio nel volgere di pochi mesi, ora sembra giunto il momento di decidere se vale la pena aprire un cantiere tra le macerie del sistema per mettere la prima pietra di un nuovo governo o viceversa sarà necessario procedere con la tabula rasa elettorale.

Un’altra settimana è il tempo che il Presidente della Repubblica ha concesso alle forze politiche per poi assumere le sue determinazioni, e l’annuncio del rinvio al nuovo giro di incontri è giunto alla fine di una lunga e infuocata giornata di consultazioni per verificare se mandarci tutti alle elezioni o se un nuovo governo del paese finalmente, come sembra, prenderà forme e volti.

La suspense è iniziata proprio alla fine dei colloqui al Quirinale, quando Mattarella si è preso due ore di tempo per tirare le somme e rivelarci lo stato dell’arte alle 8 della sera in pratica a reti unificate con i telegiornali in onda.

Abbiamo visto un Presidente della Repubblica preoccupato, costretto a chiedere ancora «decisioni chiare e tempi brevi» ai suoi recalcitranti interlocutori. Tra voci sempre più insistenti di accordo Pd-M5S già in cottura, confermate dal segretario del Pd: «Dalle parole di Di Maio un quadro su cui sicuramente iniziare a lavorare». E sussurri di tornare all’antico con un nuovo incontro Salvini-Di Maio.

Quanto le acque fossero agitate e l’approdo circondato da bassi fondali era apparso chiaro fin dall’inizio di una tormentata girandola politica.

Dal cruciale incontro di ieri con Mattarella, i pentastellati erano usciti con un decalogo finalizzato a portare a compimento sia le riforme di legislatura, sia i provvedimenti finanziari di urgente, immediata soluzione. Un decalogo largamente condivisibile, come condivisibili del resto, benché altrettanto generici, erano i 5 punti portati a Mattarella da Zingaretti su mandato unanime della direzione. Ma soprattutto, al termine delle consultazioni, Di Maio aveva espresso un concetto abbastanza chiaro e dirimente.

Il leader pentastellato esplicitava il rischio di imbarcarsi in un nuovo governo, prevedendo di pagare il prezzo di altri voti in fuga dopo averne già persi milioni con il contratto gialloverde: «Per noi andare al voto sarebbe stato meglio», tuttavia «abbiamo messo in campo le interlocuzioni necessarie per trovare una maggioranza solida». Era il segnale atteso. Il capo dei 5Stelle non nominava il Pd, facendo tornare in ballo la vecchia politica dei «due forni», dando cioè l’impressione di lasciare in realtà ancora aperta la porta con la Lega.

Anche se, in un certo senso, parlava quell’elenco di temi: difficilmente ascrivibili alle priorità dei leghisti (conflitto di interessi, legalità, autonomie regionali, beni comuni, ambientalismo spinto, investimenti per il Sud….), quanto invece confrontabili con il Partito democratico. Non una passeggiata s’intende perché né sui beni comuni, né sul conflitto di interessi, né sulle autonomie regionali il partito di Zingaretti potrebbe intestarsi medaglie al valore.

La trattativa si stava impaludando già in mattinata, scatenata da una specie di fuoco amico contro Zingaretti, con un accapigliamento tra correnti del Nazareno, nella ridicola gara a chi promuoveva o, viceversa, ostacolava la mediazione necessaria a ogni seria, importante trattativa. Al confronto, i 5Stelle si muovevano come un partito bolscevico parlando per vie ufficiali cioè dalla voce del capo politico e dal Quirinale.

Volavano le condizioni più imprescindibili, gli aut-aut più insormontabili e i punti più inderogabili. Più che cercare un accordo, nel Pd si mostravano l’un contro l’altro armati mentre il terreno del confronto somigliava piuttosto a un campo minato.

In meno di 24ore i punti del Partito democratico da 5 diventavano 3, e al primo posto figurava il no al taglio dei parlamentari. Così da indurre i 5Stelle a fare altrettanto mettendo al primo posto del decalogo proprio lo stesso scoglio politico.

Difficile prevedere l’esito finale anche perché nel Pd resta un problema grande come una casa, fidarsi di Renzi.

Sembra un ossimoro e lo è perché se davvero volesse sminare il campo l’ex segretario dovrebbe mangiarsi la lingua. Altro che sminatore, dichiarare di essere pronto anche a votare Conte capo del futuro governo ne fa piuttosto un guastatore. Nella stessa misura di chi mette il veto sulla figura dell’avvocato del popolo, visto che i presidenti del consiglio non sono una merce che abbonda, e dunque se si mettono veti si dovrebbero intanto perlomeno offrire alternative credibili per palazzo Chigi. Sapendo che le riserve della Repubblica scarseggiano e quelle che restano si tengono pronte per altri più alti incarichi.

Molte partite si intrecciano in questa crisi di governo, compresa la scelta del futuro inquilino del Quirinale.

D’altra parte, essendo il partito di maggioranza relativa, i 5Stelle avrebbero diritto ad esprimere il presidente del consiglio. E si sa che il loro nome è Conte.

Alla fine di una giornata ad alta tensione, con poche certezze e molte trappole disseminate, c’è almeno un dato confortante, un segno tangibile del peso e dell’interesse della pubblica opinione verso questo momento politico. Sono quei 14 milioni di telespettatori rimasti davanti alla tv per seguire il dibattito parlamentare con le dimissioni del presidente del consiglio.

Come se d’improvviso la politica si fosse ripresa il suo posto a capotavola.