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Rickie Lee Jones, io, sopravvissuta

Rickie Lee Jones, io, sopravvissutaLa copertina di «Pieces of Treasure» (Bmg), nuovo album di Rickie Lee Jones

Intervista/Nel nuovo disco la cantautrice rilegge i grandi classici della canzone Usa L’esordio al «Saturday Night Live», la burrascosa relazione con Tom Waits, il successo, le dipendenze. Tra le popstar ispirate dall’artista di Chicago spiccano Madonna, Suzanne Vega, Tori Amos e la scozzese KT Tunstall. Nel 1991 la svolta jazz

Pubblicato più di un anno faEdizione del 29 aprile 2023

Presentando una sua tournée di qualche anno fa, un giornalista definì Rickie Lee Jones: «Una vera sopravvissuta, in una professione popolata da ciarlatani». È una descrizione che calza a pennello. Rickie Lee Jones è un’autentica sopravvissuta. Ha resistito a un’infanzia difficile, a un’adolescenza inquieta e vagabonda, alla povertà, alla violenza, alla dipendenza, all’ostilità di un mondo maschile, alle incognite del successo e al silenzio di quando si spengono le luci della ribalta. La sua vita cambia una sera di aprile del 1979. A New York va in scena, in diretta, lo show televisivo più in voga del momento, il Saturday Night Live, che ai tempi conta su un cast composto da John Belushi, Dan Aykroyd e Bill Murray. Rickie Lee Jones è l’ospite musicale della serata. È una cantautrice esordiente, ha 24 anni e ha alle spalle una vita avventurosa. Si sa che è amica, e forse qualcosa di più, di Tom Waits e con lui frequenta una Los Angeles brulicante di artisti, malviventi e naufraghi del sogno americano. Rickie Lee si mette a suo agio nel backstage raccontando ai tecnici una barzelletta sconcia, sale sul palco e improvvisamente, su una ribalta che vede ogni settimana esibirsi il meglio dello star system, sembra togliere l’aria alla sala e cattura l’attenzione di tutti. Ha un basco rosso amaranto, un abito nero anni Quaranta e una chitarra al collo. Il suo sorriso sembra più grande della sua bocca ed è contagioso e un po’ guascone. Canta due brani, il primo dei quali è Chuck E’s in Love, dedicato a un personaggio, Chuck E. Weiss, appartenente a quel demi-monde losangelino frequentato da lei e da Waits. La sua esibizione lascia il segno.
La canzone arriverà ai vertici della classifica americana, il suo primo album, omonimo, venderà un milione di copie e l’anno dopo riceverà il Grammy Award come miglior esordio. Rickie Lee sembra essere la star femminile di cui la musica ha bisogno all’inizio del nuovo decennio. «Con Mick Jagger, sei la persona più sexy che abbia mai fotografato», le dice Annie Leibovitz mentre la ritrae per la copertina di Rolling Stone. Ma le porte girevoli della storia scompaginano un destino che sembra già scritto. La relazione con Tom Waits si incendia e poi si interrompe bruscamente, gettandola in una cupa depressione che la fa sprofondare nell’alcol e nella droga. Il suo secondo disco, Pirates, esce nel 1981; è un successo di critica e di pubblico, i tempi però stanno per cambiare e la nuova generazione indottrinata da Mtv rivolge l’attenzione a una musica radicalmente diversa rispetto a quella della cantautrice che era salita sul palco del Saturday Night Live. Gli anni Ottanta sono il decennio di Madonna e non di Rickie Lee Jones. Ma questo è solo il primo capitolo della sua vita artistica.

CONTAMINAZIONI
Jones si ritrova libera da ogni aspettativa e sperimenta con generi e artisti diversi, consegnando agli annali alcuni lavori magistrali, i migliori dei quali la vedono alle prese con una contaminazione tra canzone d’autore e jazz. Oggi la ragazza col basco rosso vive proprio nella capitale del jazz, New Orleans, e pubblica un nuovo album Pieces of Treasure (Bmg), il quindicesimo della sua carriera, in cui rilegge alcuni classici del Great American Songbook, il repertorio di composizioni di inizio Novecento provenienti dagli show di Broadway e dalle fabbriche di successi della newyorkese Tin Pan Alley. Di recente ha anche pubblicato una acclamata autobiografia, Last Chance Texaco: Chronicles of an American Troubadour, un resoconto, purtroppo ancora inedito in italiano, in cui senza censure racconta le sue tante sfide.
Pieces of Treasure la vede tornare a lavorare con il produttore Russ Titelman che era al suo fianco quando incise i suoi primi due album. Dal suo studio di casa, decorato con chitarre appese alla parete, Rickie Lee racconta come è nato questo suo nuovo lavoro: «Con Russ ci siamo trovati d’accordo sullo scegliere da quel repertorio di standard, lasciando volutamente fuori canzoni degli anni Sessanta, Settanta o Ottanta. Abbiamo scelto una band e abbiamo provato le canzoni al piano prima di inciderle, per decidere subito l’arrangiamento ed entrare in sala di registrazione con delle scelte ben precise. Questo lavoro preparatorio è stato importantissimo, ci ha consentito di incidere velocemente costringendomi anche a rimanere fedele a un’impostazione. Tendo infatti ad avere sempre molte idee e ho bisogno di qualcuno che mi ascolti, ma che mi sappia anche dire ‘basta!’, perché a volte non so quando fermarmi. Un po’ come un padre e Russ per me è un buon papà».
Nell’album, inciso in una settimana ai Sear Sound Studios di New York, con un quartetto composto da Rob Mounsey (piano), Russell Malone (chitarra), David Wong (basso) e Mark McLean (batteria) ci sono classici come September Song di Kurt Weil, On the Sunny Side of the Street, There Will Never Be Another You. Nature Boy, brano legato all’interpretazione di Nat King Cole, compare in una curiosa versione mediterranea accompagnata dal suono di un oud. «Ho letto – dice Rickie Lee – che l’autore della canzone si ispirò alla figura di Krishnamurti (guru indiano che divenne figura di culto per il movimento hippie, ndr). Il brano parla dell’incontro in un posto lontano con uno straniero che ti dice qualcosa che diventa importante per il resto della tua vita. Mi sembrava quindi naturale ambientarlo musicalmente in una location per me esotica».

UNO SCATTO SFACCIATO
Sulla copertina del disco una fotografia risalente agli esordi artistici: una statuaria Jones con occhiali da sole a specchio è in un costume da bagno anni Quaranta e una mano le infila una banconota nel petto: «Uno scatto sfacciato – spiega – per un disco tutt’altro che sfacciato. Una foto rimasta nel cassetto per decenni, ma che mi sembra perfetta. È l’iconica rappresentazione del viaggio e dell’evoluzione di una donna: da come appariva a come oggi interpreta le canzoni». Il percorso dell’artista e della donna è raccontato nella sua autobiografia. Non è un mémoire che elenca canzoni e concerti, ma la parabola, a tratti sinceramente sconvolgente, di una famiglia cresciuta tra povertà, tragedie e la storia di una ragazza che vive esperienze traumatizzanti. Ci sono continui e inspiegabili traslochi, scoppi di violenza del padre, un incidente che rende invalido per sempre un fratello. La soluzione sembra la fuga in cerca di un’idea di libertà. Rickie Lee trova una vocazione nella musica, ma affronta anche il lato oscuro di quel movimento giovanile anni Sessanta intessuto di ideali e tuttavia ancora schiavo di pregiudizi e comportamenti sessisti e rapaci. «Quando scappai di casa a 14 anni fui costantemente in pericolo – ricorda -, quando a noi donne accadono cose orribili, cerchiamo di allontanarci, di correre il più velocemente possibile, per poter andare avanti. Puoi avere un callo che ti cresce sull’anima o puoi avere una ferita che non si rimargina. Io di fronte alle esperienze spaventose che ho dovuto subire, le molestie, i tentativi di stupro, le minacce con una pistola, ho sempre proseguito, spinto più in là. Oggi, alla mia età, mi sento al sicuro, e sono capace di vedere quanto mi è accaduto in una prospettiva più grande. Le cose che ho vissuto le ho raccontate a me stessa tante e tante volte e alla fine scriverle non è stato così difficile. Le parti davvero dolorose da rievocare sono state l’incidente di mio fratello e quando ho rischiato di morire per colpa di uomini malvagi. Ci sono ricordi che mi terrorizzano ancora, ma è il destino di una donna che vive sulla strada. Ci sono predatori e noi siamo come gazzelle davanti ai leoni. Non siamo ancora in grado nella nostra società di proteggere adeguatamente le donne e i più deboli».

UN PERIODO BUIO
Nelle sue pagine la cantante non nasconde anche il periodo buio delle sue dipendenze che ne misero a rischio vita e carriera. Anche qui ha dovuto confrontarsi con un mondo di preconcetti sessisti. Se le rockstar maschili venivano, e vengono, quasi mitizzate per i loro vizi, le donne sono trattate con un senso di disprezzo. «Quando una donna ha una dipendenza è come se fosse impura – prosegue Jones -. Come duemila anni fa si vorrebbe lapidarla. E lo stigma rimane per tutta la vita. Siamo madonne o prostitute, viviamo ancora prigioniere di stereotipi da anni Cinquanta. Ma bisogna dire che oggi ancora tante donne che vogliono affermarsi, e lo vediamo ovunque, alimentano questi stessi stereotipi e non fanno nulla per abbatterli». Ma nella vita di un’artista di successo ci sono anche ricordi belli, proprio come quella esibizione al Saturday Night Live che diede la spinta decisiva alla sua carriera: «All’epoca era lo show televisivo che guardavano i giovani. E che aspettavano tutta la settimana. Soprattutto negli anni dal 1978 al 1982 aveva un’influenza enorme sul panorama musicale, una carriera poteva dipendere dall’essere invitati a quel programma. La mia fu quasi una favola. Nessuno sapeva chi fossi, il mio disco d’esordio doveva ancora uscire e la mia etichetta discografica riuscì a convincere il produttore dello show che si trattava di un disco importante. Ero solo una ragazza, la pressione era enorme, ma la mia esperienza con tante cattive avventure mi fece tirare avanti come sempre. Mi dissi ‘Poi ci penserò. Adesso so cosa fare’. Qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Penso di aver sempre avuto questo istinto».
Sono seguiti quaranta anni scanditi da successi, riconoscimenti internazionali (tra cui un Premio Tenco) e collaborazioni con i più grandi nomi della musica. È stata una vita, come scrive nella sua biografia, fatta di «destino e di opportunità». «Il pubblico di giovani che mi scoprì agli esordi – conclude sorridendo – è rimasto con me tutta la vita, è un legame speciale. Oggi portano ai concerti i figli e si vedono ora anche i figli dei loro figli. Le mie canzoni sono state sempre con loro. Non so se tante nuove persone oggi si avvicinano alla mia musica. Ma mi sento fortunata per la carriera che ho avuto».

CHI HA INFLUENZATO
L’influenza di Rickie Lee Jones nell’ambito dalla musica al femminile è stata enorme. Spesso però, quando si parla di artiste si tende a cadere nella trappola dei luoghi comuni.
Quando arrivò sulle scene, Jones venne istantaneamente assimilata a Joni Mitchell, un accostamento che Rickie Lee ha sempre definito un po’ superficiale perché dettato dal fatto che erano entrambe ragazze bionde che suonavano la chitarra. Ma alla fine degli anni Settanta, l’epoca della disco music, cantanti e musiciste venivano relegate spesso al ruolo di modelle sexy o di pure interpreti al servizio di autori o produttori uomini; Rickie Lee Jones scompaginò le carte imponendo la sua personalità, il suo stile, la sua immagine e una coraggiosa indipendenza artistica. «Per una donna riconoscere l’ispirazione di un’altra venuta prima di lei non è sempre facile – dice oggi la cantante -. Si rischia di diventare vulnerabili, di essere poi etichettate da qualche giornalista come un’imitatrice ed essere sminuite. Ma è anche vero che sfortunatamente nel mondo delle artiste c’è molta competizione. In realtà siamo tutte al centro di un grande confronto musicale, ci influenziamo continuamente le une con le altre».
Vale però la pena di ricordare i debiti artistici che diverse protagoniste del mondo della musica hanno avuto con lei. La prima di tutte è proprio Madonna. La sua hit del 1984 Like a Virgin, lanciata da un memorabile video veneziano, aprì una nuova epoca e forse chiuse le porte del grande pubblico alla canzone d’autore al femminile, che per anni venne relegata a una platea di élite. Rickie Lee Jones fu però la prima artista, due anni prima della nascita di Mtv, su cui una casa discografica investì per la realizzazione di un video musicale dalla qualità quasi cinematografica. Nel 1979 venne realizzato infatti dal fotografo Ethan Russell un cortometraggio che conteneva tre brani dell’album di esordio di Rickie Lee Jones: Young Blood, Coolsville e Chuck E’s in Love. In assenza di un canale televisivo dedicato alla videomusica, la clip veniva trasmessa su teleschermi collocati nei negozi di dischi.
Fu il vero test-drive di un nuovo mezzo promozionale che influenzerà in maniera determinante il mondo del pop per più di due decenni e che sarà il veicolo del successo non solo di Madonna, ma di tutte le popstar donne venute dopo di lei. La giovane Ciccone ha anche un debito estetico nei confronti di Rickie Lee, visto che all’inizio della sua carriera fu lei per prima a indossare voluttuosi guanti di pizzo e reggiseni a vista, diventati poi il biglietto da visita di Madonna e della sua generazione di giovani fan.
Tra le cantautrici che hanno senza dubbio seguito l’ispirazione della cantante di Coolsville ci sono Suzanne Vega e Tori Amos. Vega, nata a Santa Monica ma affermatasi artisticamente nel Greenwich Village di New York, è di cinque anni più giovane e non ne ha mai condiviso l’estetica un po’ bohemienne, ma senza dubbio per quanto riguarda lo stile compositivo e l’impostazione vocale tra le due c’è più di un’affinità.
Le due artiste sono anche accomunate dal fatto di avere avuto, quasi loro malgrado, una hit di musica elettronica. Suzanne Vega nel 1990 quando il duo inglese DNA riarrangiò il suo brano Tom’s Diner, Jones un anno dopo, quando i londinesi The Orb usarono una sua intervista come parte vocale del loro inno ambient-dance Little Fluffy Clouds. Rickie Lee ha però rilanciato pubblicando nel 1997 Ghostyhead, coraggioso lavoro fortemente contaminato con suoni elettronici.
Tori Amos non ha mai nascosto la sua ammirazione e ispirazione. «L’intero album omonimo di esordio di Rickie Lee Jones è straordinario e ha retto nel tempo – ha dichiarato -. Penso che On Saturday Afternoons in 1963 sia una delle più belle canzoni mai scritte. Nulla all’epoca suonava come quel disco. Sembrava venisse da un altro pianeta e ha influenzato tantissimi artisti».
Nel 1993 la cantautrice Liz Phair si affermò con un album d’esordio in cui esprimeva la personalità e il coraggio compositivo che ricordava la ragazza dal basco rosso della fine degli anni Settanta.
Anche il titolo del disco, Exile in Guyville, sembrava un tributo alla Coolsville di 15 anni prima. Stesso cognome e percorso simile ma estrazioni assai diverse: Norah Jones è figlia del musicista indiano Ravi Shankar e anche lei si è imposta sulle scene quasi a sorpresa con lo straordinario successo del suo debutto del 2002 Come Away with Me. La miscela di blues, folk, soul e country, riletti tutti attraverso un’impostazione da jazz classico accomuna senza dubbio le due artiste quasi omonime.
Tra le cantanti che non hanno mai nascosto di aver guardato a Rickie Lee, la scozzese KT Tunstall e le statunitensi Jewel e Neko Case. Anche Cat Power ha non pochi punti di contatto con lei, dalla cifra interpretativa al gusto per reinventare canzoni altrui. Così come l’originale approccio al cantautorato di Fiona Apple ha senza dubbio attinto dalla sua lezione.
La più decisa svolta verso un jazz classico per Rickie Lee avvenne con l’album del 1991 Pop Pop, la sua prima raccolta di cover che la vedeva collaborare, tra gli altri, con Charlie Haden. Un approccio pop jazz che sarà seguito con successo dalla canadese Diana Krall e dalla francoamericana Madeleine Peyroux che con Jones ha inciso una bella versione di As Time Goes by, la canzone di Casablanca.

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