Rickie Lee Jones si definisce «una rocker di seconda genrazione» quando la incontriamo, via zoom dalla sua casa di New Orleans per parlare di Last Chance Texaco: Chronicles of an American Troubadour, l’autobiografia uscita in America ad aprile. La parabola artistica della cantautrice inizia effettivamente alla fine degli anni ‘70, qualche anno dopo la prima onda di artisti come Dylan e Joni Mitchell cui spesso viene accostata.

Per la verità l’esperienza della «trovatrice americana» del titolo prende le mosse da una sensibilità peripatetica molto «beat» nei primi anni on the road, per attraversare poi le tappe obbligate di una rock ‘n roll life in cui non sono mancate assuefazioni, eremitaggi a Big Sur nonché riformatori e un po’ di galera e una carriera lunga 17 dischi e un paio di Grammy. Nel libro adesso la storia autografa di una donna e un artista che si è spesa senza compromessi per affermarsi fra le principali interpreti del suo tempo

Ha scelto di vivere a New Orleans, perché?

Qui appena metto il naso fuori dalla porta è sicuro che incontro qualcuno che conosco o che non conosco ma che di certo mi racconta qualcosa. È il contrario di quello che succede a LA, dove se guardo qualcuno negli occhi e saluto, distraggono subito lo sguardo. Questa città mi attira, è gioiosa, per non dire fieramente idiosincratica e per questo attrae di tutto: diciottenni che voglio fare parate dalla mattina alla sera, ragazzi vestiti da ragazze, ragazze vestite da ragazzi – costumi di ogni genere, poi le parate di carnevale …gli Zulu, i Dragons, così tanti gruppi fieri di abitare qui e che sono sempre per strada. E l’altra cosa è il Dixieland, che io non ho mai preso troppo sul serie perché mi ricordava Disneyland – ma a New Orleans la imparano da bambini e vedi questi ragazzi neri che non portano la pistola o un boombox ma un trombone o una tuba per andare a ripetizione. Qualche anno fa camminavo per una strada deserta quando improvvisamente ecco che arriva una piccola parata, coi tamburi e gli ottoni e una coppia tutta in gingheri – si erano appena sposati e stavano facendo una parata di matrimonio. Li per lì mi sono detta “chi non verrebbe a vivere qui”?

Quali sono i suoi primi ricordi musicali?

La musica è sempre una conversazione, specialmente se è la tua professione. Prendi il meglio e lo fai tuo, tutti fanno così. I dischi che aveva mio padre erano circa cinque: Tommy Dorsey, Benny Goodman, Nina Simone, Ella Fitzgerald…Poi abbiamo comprato Day-O, Day-O! e Moon River, erano questi i dischi che ascoltavo prima che arrivassero i Beatles. Loro hanno avuto l’impatto più grande. Il mio primo disco è stato The Beatles VS The Four Seasons, che mi ha mandato mio nonno, poi mia madre mi ha comprato Electric Ladyland perché era esposto alla cassa del supermercato. Il primo disco che ho comprato coi mie soldi invece è stato dei Buffalo Springfield. Se vuoi imparare a scrivere, devi imparare tutto, renderlo emozionalmente tuo.

Di tutte le sue numerose frequentazioni musicali quali ritiene siano state creativamente fondamentali?

Beh, gli amici. Prima di incontrare Lowell (George, ndr) avavo sentito parlare dei Little Feat, ma francamente non facevano per me, mi piaceva «Willin’» ma quel tipo di country rock non mi entusiasmava. Prima di incontrare Tom Waits invece avevo sentito The Heart of Saturday Night e mi era piaciuta più di ogni cosa. Ricordo la foto sulla retro copertina che sembrava invitarmi in un nuovo mondo, con lui che teneva una sigaretta come una bacchetta magica davanti ad un edicola. Faceva il duro letterato, e all’epoca, negli anni 70 non c’era nessun altro che lo facesse. Mi attraeva l’idea di una persona originale forse ancor più della musica. e la musica dei miei amici mi era tanto più preziosa, ma come dicevo è una conversazione…Io gli ho dato un po’ di West Side Story, loro un po’ di Miles Davis…Avanti e indietro.

Quando ha sentito di aver trovato se stessa?

Forse tre mesi fa? (ride) È un’evoluzione perenne. Non voglio evadere la domanda ma per me è difficile sapere quale Rickie Lee Jones la gente preferisca. Se è la ragazza col berretto, un po’ cool di Chuck E’s In Love, beh allora per loro rimarrò sempre lei. Ovviamente per me non c’è solo lei, e volevo che il pubblico sapesse che non ero solo quella ragazza li. Ci è voluto molto tempo a rassegnarmi che se qualcuno vuole solo quella ragazza li, beh allora è giusto lasciargliela. Forse ad altri interessa solo quella di Ghostyhead e chi sono io per impedirglielo? Per quanto mi riguarda importa solo che mi piaccia questa Rickie Lee – quella che sta dando questa intervista.

Il libro racconta anche di una tendenza all’autocritica…

Ieri sera stavo a letto col mio compagno che mi diceva di non cercare sempre “il serpente nel giardino”…  “hai tutto quello che vuoi –  mi diceva – la gente ama il libro su cui hai lavorato così a lungo, accettalo”. Così a 66 anni sto imparando a preoccuparmi di meno. C`è ancora una piccola parte di me che teme che a qualcuno non piaccia questa o quella cosa, ma cerco di fare uno sforzo. Non considero la mia una vita triste. Anche se a volte sono triste, in fondo mi considero un’ottimista. Ogni cosa che mi succede mi sembra mi porti verso una soluzione. Mi ha fatto ridere una cosa che ha detto Bill Flanagan. Ha detto: «Rickie Lee Jones fa sesso in un ripostiglio per la prima volta ed esce cantando di un meraviglioso sogno che ha fatto vestita di organza e crinolina.» È vero, vedo sempre il lato bello ed immaginario della vita. È la mia natura, È quello che ho imparato su me stessa scrivendo il libro.

Crede che la musica abbia ancora la forza prorompente che aveva negli anni del suo esordio?

Beh non per me ma probabilmente per i giovani. Credo sia come un’iniziazione, uno stadio che tutti attraversiamo, in cui le cose a cui teniamo si saldano inestricabilmente con la musica che ascoltiamo. Noi musicisti, per creare la nostra musica, prendiamo tutti spunto dalla musica pop del nostro tempo. E per quasi tutti, credo, i gusti si formano in gran parte in adolescenza e gioventù, e penso dopo i trent’anni si smetta di “raccogliere” nuova musica. Ognuno ha il proprio raccolto e quella è la musica che resterà sempre con te.

Cosa pensa della musica in era digitale?

Non danneggia l’aspetto creativo, noi continuiamo a fare musica, ma danneggia la parte commerciale. Gli intermediari che commercializzano la musica hanno sempre complicato le cose. Ora ci sono nuovi tipi di intermediari, ma il gioco è sempre lo stesso: loro guadagnano ancora più soldi. La cosa brutta di internet è che dà un accesso enorme. Io dico ‘Alexa, suonami Brice Springsteen’ ed ecco Bruce – non devo nemmeno spingere il bottone. Ma la convenienza ha un prezzo per Springsteen e per la sua casa editrice e per la casa discografica. Io ricevo 0,004 cent per ogni canzone che passa su Spotify, potete immaginare quante ne devono passare per fare il primo cent. La verità è che bisogna essere grati di poter fare una cosa che si ama. Oggigiorno più la gente guadagna e più è arrabbiata che qualcun altro si stia arricchendo alle loro spalle. E meno soldi hai, più sei grata che qualcuno stia ascoltando la tua musica. Io sono fra questi.

Come ha vissuto questi ultimi tempi?

Anche prima del Covid avevo deciso che la mia data di morte è passata inosservata e che sto vivendo di tempo prestato; avevo deciso di amare la vita. Forse per questo non l’ho presa troppo male. Certo è scoraggiante vedere un virus così politicizzato – qui la gente rischia la vita per dar ragione a Donald Trump. Il mondo adesso è questo. Non l’abbiamo mai visto prima, e d’ora in poi credo saremo persone diverse, sarà un mondo diverso. Forse saremo un unico mondo invece di (tanti) paesi, e dovremo prenderci cura di esso. Forse ne verrà qualcosa di buono.