Nel composto conversation piece che accoglie il visitatore della National Portrait Gallery, intessendo dialoghi muti di volti e sguardi in quel museo d’eleganza antica progettato a Londra alla fine del secolo diciannovesimo, si resta mesmerizzati da una coppia di ritratti raffiguranti l’uno un uomo di giovanile magrezza, i biondi capelli a contrasto con l’abito in nero spagnolesco, l’altro una figura diversa, pur sempre maschile, la cui barba nazarena rastrema il profilo di purezza insolita, meglio abbinandosi alla cappa scura libera dall’ossequio per ogni moda effimera.
Siamo di fronte a un dittico, la cui paternità spetta a uno dei modelli, quello dal volto d’adolescente patito, il quale lo portò a termine sul 1898: a tali date il pittore Charles Shannon, un’educazione trascorsa alla Lambeth School of Art, godeva di qualche fama, avendo esposto i propri lavori acerbi presso la Grosvenor Gallery col risultato d’ottenere la nomea di virtuoso, moderno seguace degli Antichi Maestri, soprattutto Rembrandt e Velázquez; inoltre, da quasi un ventennio, spartiva l’esistenza con Charles Ricketts, l’altro effigiato nelle tele della National, compagno che gli restò affianco persino lungo la prova senile della smemoratezza di sé, col quale – dall’età verde – scelse di condividere intimità e avventure professionali.
Unitamente fondarono la Vale Press, casa d’edizioni scelte modellata sulla Kelmscott di William Morris e attiva dalla fine degli anni Ottanta fino ai primi del Novecento, un’iniziativa di squisito artigianato celebre per una rivista sognante come «The Dial», invaghita di preraffaellismo e letteratura francese, e per le edizioni delle più ammanierate fra le creazioni di Oscar Wilde, A House of Pomegranates (1891) e il poemetto The Sphynx (1894), apprezzate per la perturbante stravaganza dell’ornato. Rivoluzionari nell’adozione di un gusto di stampa rivolto ai toni del bianco, recalcitrante rispetto alla litografia e piegato a un uso innovativo delle matrici in legno, i due – inseparabili protagonisti della mondanità dei ‘romantici ’90s’, raccontata da Richard Le Galliene – si videro consacrati dalla benedizione del padre di Dorian Gray arbitri elegantiae di un’epoca nuova; così ad esempio a proposito della raccolta di favole che ne inaugurò la collaborazione: «ci sono solo due persone al mondo a cui è assolutamente necessario che la copertina sia gradita. Una è Mr. Ricketts, che l’ha disegnata, l’altra sono io, l’autore del libro che ad essa è legato. E entrambi la ammiriamo immensamente».
Con una tanto autorevole legittimazione alle spalle, pronunciata negli anni in cui Wilde si intratteneva con Aubrey Beardsley, stupisce allora di imbattersi, quanto all’olio di Londra, in un’ostinata reticenza nello sguardo di Ricketts, il quale – più giovane di Shannon di appena un triennio (nati rispettivamente nel 1866 e nel ’63) – rifugge l’incontro fortuito col presente dei propri ammiratori, adattandosi a un tre quarti in fuga. È lo stesso Ricketts a proporre la chiave di una simile attitudine, affettata in un carattere che opponeva all’evoluzione dell’industrialismo le doti di un’incantata manualità (nell’incisione tanto quanto nel disegno d’oreficeria) e che ogni due anni cercava rifugio fra le pagine della biografia di Cellini: “mi sto vogendo lontano dal XX secolo per affidarmi solo al Quattrocento”.
E tuttavia, lo strabismo programmatico del doppio ritratto ha un’eco nei commenti dei contemporanei; amici di William Butler Yeats, di George Bernard Shaw, di Bernard Berenson, avversi alle teorie di John Ruskin («he is a lady») e in rapporti con Lucien Pissarro, i due trovarono nell’ammirazione dei confidenti un inequivoco attestato di attualità; al punto che il poeta Thomas Sturge Moore così ricordò Ricketts: «avanzava tutti i tempi, distruggendo il passato».
In cosa dunque consistette il legato per il Novecento di questi inossidabili sodali, le cui vite si spinsero imperturbabili fino alla soglia della Seconda Guerra Mondiale? In che modo l’ispirazione sospesa dei dipinti di Shannon (i quali nella declinazione di Les marmitons, oggi alla Tate, avevano mosso Whistler a stupirsi della sprezzatura del loro ductus), in che maniera le pagine impertinenti dei volumi di critica vergati da Ricketts contro Cézanne o gli Impressionisti – ma non avverse a Manet o Degas – si conquistarono un ‘luogo’ nell’epoca inaugurata da un generale ripensamento della grande tradizione continentale? Nella veste duplice di sopravvissuti e traghettatori.
È significativo, in questo senso, che il postumo Self-portrait di Ricketts, assemblato nel ’39 da Moore e da Cecil Lewis collazionandone lettere e diari (e assecondando un’iconografia narcististica che lo aveva esposto assieme a Shannon agli studi after life di Jacques-Emile Blanche o di William Rothenstein), si apra col ricordo di due eventi luttuosi: la fine infamante di Wilde, fra l’incarcerazione e la morte, e quella giubilata della Regina Vittoria, circostanze che all’unisono intonarono il requiem di un’epoca. Al dolore di casi siffatti Ricketts e Shannon seppero di dover resistere lontani ormai da Chelsea, zona in cui si erano trasferiti nel 1888; ma ancora nel 1905 il primo avrebbe segnato nel proprio diario un anedotto eloquente raccontatogli da Robert Ross, esecutore testamentario del dandy irlandese, il quale gli aveva confessato come questi, in rovina, lo avesse esortato a ignorare le trombe del Giudizio, quando fossero suonate nell’ultimo giorno riservato all’umanità.
Vicino di casa, Roger Fry
Tuttavia prima di lasciare il quartiere della mondanità wildiana – lo scrittore aveva vissuto in Tite Street i giorni del suo trionfo – la coppia di artisti si era scoperta anche a condividere un nuovo, inatteso vicinato, trovandosi confinanti della pertinenza su Beaufort Street appena occupata da Roger Fry, la personalità che sul 1910 si sarebbe imposta sulla scena londinese come la voce critica più autorevole del cosidetto gruppo di Bloomsbury.
Sappiamo da Virginia Woolf che Fry, coetaneo di Ricketts (entrambi erano venuti al mondo nel 1866), non ne apprezzava il «dogmatismo irresponsabile»; e tuttavia, secondo altre testimonianze sempre riportate dalla romanziera, durante i tè annuali condivisi con puntualità il primo «pendeva dalle labbra» del secondo. Quella che potrebbe apparire come una contraddizione nasconde forse una verità profonda. Della coppia Fry stimava senza dubbio l’anticonformismo esistenziale, la conversazione brillante, la distinzione impeccabile che ne riempiva la casa di oggetti rari e pregiati (reperti archeologici, stampe giapponesi, cartoni di Puvis de Chavannes, statuette di Tanagra, disegni rinascimentali passati in buona parte al Fitzwilliam Museum), disposti in accordi assonanti o accostamenti imprevedibili; e pure nella discrepanza delle passioni, nell’assoluta alterità dei rispettivi pantheon – Fry avrebbe organizzato presso la Grafton Gallery un’epocale mostra sui Postimpressionisti, accolta con scetticismo da Ricketts e Shannon – poteva seguire la linea formalista cara ai convincimenti dei due connoisseurs, intenti a ritrovare in ogni opera una percentuale d’intelligenza e un’evidenza tecnica necessari per formare un almanacco di immagini oltre la Storia, selezionate dal solo metro delle predilezioni individuali. Fry vi dovette riconoscere principi utili a giustificare l’idea della «significant form» (chiave di lettura per la pittura moderna, estranea a una struttura narrativa) o iniziative come gli Omega Workshop, destinati a creare oggetti di uso quotidiano improntati a standard di bellezza e comodità; tanto quanto il postmoderno, negli anni della riscoperta del Vittorianesimo letterario e figurativo (fra i settanta e gli ottanta), avrebbe apprezzato – nelle vite audacemente confortevoli dei due esteti – la libertà giocosa di una sensibilità sovrana, giocata sulle corde leggere del bon ton e dell’ironia.