C’è qualcosa di storto che rende ancora moderno ed estremamente adattabile alla nostra “meticcia” contemporaneità il progressive? Parrebbe proprio di sì, ad assistere alla risposta di pubblico intervenuta al Teatro Manzoni di Milano per il secondo dei tre concerti “Piano Solo” del minitour di Rick Wakeman. Dunque, è l’ex-tastierista degli Yes, classe 1949, a caricarsi sulle spalle l’intera leggenda del “prog” anni ’70, vista l’uscita di scena tragica dell’amico-rivale di sempre, Keith Emerson, e la scomparsa di Greg Lake, due “pezzi” degli EL&P, l’unico gruppo che poteva competere per popolarità con la band di Wakeman, Anderson e Howe. Infatti, più di altre formazioni furono proprio gli Yes e gli EL&P ad essere spregiativamente definiti dal punk “dinosauri”, meritevoli di sparire dalle scene e vedendo trent’anni dopo com’è andata a finire la “grande truffa del rock’n’roll” c’è da sorridere.

Perché il contrasto era soprattutto giocato non sull’appiattimento della creatività, ma sullo spostamento al ribasso della capacità di saper suonare uno strumento. Ed infatti, se il punk recuperava le ruvidezze delle primitive chitarre rock, il progressive ergeva a proprio simbolo e feticcio le tastiere e sintetizzatori e Wakeman fu tra coloro che risultarono alla lunga i più sperimentali nell’accogliere suggestioni musicali colte all’interno del loro bagaglio culturale più pop (divergono da tale linea dominata da Wakeman-Emerson, Tony Banks dei Genesis per le larghe composizioni orchestrali di questi anni e Hugh Benton dei Van der Graf Generator per il recupero ab origine di Bach) . Non va però dimenticato che l’industria discografica suggerì per loro un gigantismo non solo sonoro, ma anche scenografico che prima o poi avrebbe dovuto anche spogliarsi e ritornare alla “nudità” del pianoforte. Questa è senza alcun dubbio l’operazione allestita da Wakeman, prima con l’album di cover “Piano Portraits” in cui omaggia gli amici di sempre (tra gli altri Bowie, Cat Stevens, Led Zeppelin, Beatles) ed ora con questo tour che tocca anche l’Italia dopo molti anni di assenza (il tastierista percorse lo Stivale sia con gli Strawbs sia con gli Yes nel girotondo di anni ’60-’70) e che avrà una coda nei prossimi anni con lo sviluppo dal vivo di un triplo album di sole sue composizioni.

La scaletta del concerto è un passaggio obbligato da ciò che è oggi e ciò che sarà domani, aperto com’è da due brani provenienti da “The six wives of Henry VIII” e proseguita tra aneddoti, assecondati dal partecipe pubblico, e brani come Life on Mars (il racconto del rapporto con Bowie è stato struggente a differenza di quello avuto con Cat Stevens) e la pirotecnica chiusura beatlesiana (Help e Eleonore Ribgy) triangolata da improvvisazioni prokofieviane, doppiamente bissata da “Merlin the magician” da “The Myths and Legends of King Arthur and the Knights of the Round Table” e dal leziosissimo “Clair de lune”.