In un saggio recente intitolato Afropessimism, lo scrittore e attivista Frank B. Wilderson III scrive che la vita dei neri è «saturata di violenza a ogni livello di astrazione possibile». Voce autorevole nel dibattito intellettuale che viene per l’appunto definito afro-pessimismo, Wilderson indaga (fra l’altro) le ragioni filosofiche e ideologiche alla base del triste primato di discriminazioni e vere e proprie persecuzioni dirette contro i neri in genere e gli afroamericani in special modo, mostrando come l’esperienza di questi ultimi sia intrappolata, politicamente e concettualmente, in un «ciclo perpetuo di schiavitù».

È difficile negare che esista una sorta di eccezionalismo al rovescio quando si considerano le condizioni tutt’ora precarie degli afroamericani, soggetti cronicamente subalterni all’interno della loro stessa nazione, quotidianamente sacrificati alle continue, letali riemersioni di razzismo istituzionalizzato. Come fa notare Alessandro Portelli in relazione all’omicidio di George Floyd in Il ginocchio sul collo, questa violenza viene ancora (in maniera più o meno conscia) figurata simbolicamente come il trionfo «della virtù sulla bestia, dello spirito sulla natura, della civiltà sul mondo selvaggio».

Una necropolitica in atto
La condizione in cui è precipitata la vita dei neri, ha riassunto efficacemente Claudia Rankine, è tutta iscritta nel segno del lutto. Asserviti a quella che il filosofo camerunense Achille Mbembe, parafrasando Foucault, definisce «necropolitica», ovvero il diritto che lo stato si arroga di esporre alcuni dei propri cittadini alla morte, gli afroamericani sono spesso ridotti a una esistenza da zombie, condannati a non condividere i diritti propri alla condizione umana.

Nei suoi affreschi cupi, caratterizzati da una violenza all’epoca considerata insostenibile (il suo romanzo più famoso, Paura, è stato inserito dall’American Library Association nella lista dei titoli più controversi del XX secolo) Richard Wright ha immortalato la vita afroamericana con nitida spietatezza. La ferocia che descrive è talmente indigesta da essere stata giudicata eccessiva persino da un autore di protesta come James Baldwin, altro grande nome della letteratura afroamericana contemporanea, per il quale essa sfiorava la caricatura più che inquadrare un ritratto sociale impietoso.

Pur mantenendosi su posizioni non del tutto conciliabili con quelle di Wright, però, Baldwin non nascose la sua ammirazione: «Il paesaggio di Wright», scrisse, «non è soltanto quello del profondo sud o di Chicago, ma quello del mondo, e del cuore umano». Lo dimostra una magistrale raccolta di racconti da noi finora inedita, Otto uomini (traduzione di Emanuele Giammarco, Racconti editore, pp. 281, € 18,00) in cui Wright disegna una galleria di ritratti che, sempre saldamente nei confini dell’esperienza afroamericana della prima metà del XX secolo, coprono in realtà una gamma di registri che esula da una semplice, per quanto inesorabile, raffigurazione della violenza intrinseca alla vita dei neri negli Stati Uniti.

Non c’è spazio per esercizi di pura divagazione: vicino all’ideologia marxista nonostante gli aspri contrasti che caratterizzarono i suoi rapporti con il partito comunista statunitense fino alla rottura definitiva nel 1942, Wright rimase sempre convinto del valore di denuncia del realismo. In questa raccolta, pubblicata nel 1961 a pochi mesi dalla morte dell’autore, l’influenza dell’esistenzialismo a cui Wright ebbe modo di accostarsi frequentando l’ambiente dei filosofi parigini dalla fine degli anni Quaranta è forte; ma anche nell’aderenza magari imperfetta ai canoni del realismo classico tipici della letteratura d’ispirazione socialista, è chiara la missione fondamentalmente politica del romanzo.

Livido carnevale
Nel ricorso frequente agli eccessi e al grottesco, Wright sembra avvicinarsi allo stile utilizzato dell’amico Ralph Ellison nel suo capolavoro, Uomo invisibile. Ma, come in Ellison, l’esuberanza talvolta addirittura carnevalesca della storia (un carnevale comunque livido, fatto di ghigni più che di risate liberatorie) è solo un’ennesima arma contro le assurde ineguaglianze della società americana, che nelle avventure surreali dei protagonisti di Wright vede rispecchiata la sua cruenta ingiustizia.
In «L’uomo che andò Chicago», in particolare, Wright mescola finzione e biografia, utilizzando la storia come podio per un comizio accorato contro il razzismo sistemico dell’America. Ma la forza politica della raccolta è evidente già dal titolo, che, contro la disumanizzazione prevista dalle prospettive sociali, afferma invece senza esitazione la speciale sensibilità di queste otto figure vessate e ribelli, vittime e carnefici delle storie che le vedono protagoniste. Wright pare rispondere idealmente a chi critica la crudezza della sua opera insistendo nel mettere in primo piano anche gli aspetti meno edificanti o addirittura spaventosi. Come lo Shylock shakespeariano, i protagonisti di Wright sembrano chiedere al lettore (e specialmente al lettore bianco) «se ci pungete, non versiamo sangue, forse? E se ci usate torto non cercheremo di rifarci con la vendetta?»

Nei racconti più cupi – «L’uomo che uccise un’ombra» e «L’uomo che visse sottoterra» – i protagonisti traumatizzati dalla loro vita perennemente minacciata raggiungono il punto di rottura e lo traducono in comportamenti assurdi o brutali, ma sempre ricollegabili agli effetti dell’oppressione bianca. La nota propensione di Wright per la durezza si stempera tuttavia in alcuni racconti che, non meno apertamente accusatori, utilizzano però gli strumenti del genere comico e della farsa per muovere i loro attacchi. In «Un uomo tuttofare» la storia di una soluzione decisamente eterodossa alla disoccupazione è tutta condotta attraverso un dialogo tanto esilarante quanto spietato, e in «Dio non è così» è l’arroganza del colonialismo occidentale a essere sbeffeggiata a colpi di gospel. C’è spazio anche per due piccole gemme di realismo come «L’uomo che era quasi un uomo» e «L’uomo che vide l’alluvione», in cui Wright torna al Sud natio, descrivendo con una delicatezza non a lui frequente la vita quotidiana dei neri nelle campagne, mezzadri impoveriti al servizio del latifondista di turno e soggetti ai capricci delle acque del Mississippi.

Il prezzo del liberalismo
È quasi superfluo affermare che uno scrittore come Wright torna oggi a essere più attuale che mai. Non che la sua opera sia mai stata inefficace nel descrivere gli orrori del razzismo statunitense, ma nel passato recente è stato spesso facile dimenticarsi di come le ostentazioni del liberalismo americano si reggessero sempre e comunque sulla sofferenza e sull’oppressione. Se le morti di George Floyd, di Breonna Taylor e degli altri 162 afroamericani uccisi finora dalla polizia nel 2020 non fossero bastate, Richard Wright è qui a ricordarci che le persone nere negli Stati Uniti sono ancora troppo spesso costrette in un’esistenza sempre sul limite dell’estinzione.