Poco più che sessantenne, Richard Powers appartiene a pieno titolo a quella grande tradizione sperimentale che, da maestri del postmoderno come Pynchon e DeLillo fino ai più temerari innovatori della fine dello scorso millennio, William Vollmann e David Foster Wallace, ha sempre concepito la scrittura come evento dialogico, confronto con un lettore che è chiamato a scoprire e spesso «inventare» il senso dell’opera che ha davanti. Reduce da studi scientifici e letterari e da una precoce esperienza di programmatore informatico, Powers ha scritto tredici romanzi in poco più di trent’anni, confrontandosi con molti dei temi su cui rischia di giocarsi il futuro della specie: dal dominio di un’informazione esplosa e incontrollata all’emergenza ambientale, dalla crescente invasività della scienza ai nuovi conflitti su scala globale. Non si è peraltro limitato – e in questo risiede la sua originalità – a enunciare tali temi, né si è mai accontentato di un’esposizione di stampo didascalico e in fondo tradizionale, che affidasse ai soli contenuti l’aggancio con la complessità del presente. Ha invece deciso di portare i conflitti all’interno dei suoi libri, incarnandoli nelle complesse strutture che popolano la sua narrativa, perennemente giocata su un delicato equilibrio tra narrazione intima e storia ufficiale, pensiero scientifico e finzione letteraria, memoria autobiografica e racconto d’invenzione.

Con il Premio Pulitzer vinto lo scorso anno per la sua tredicesima opera, Il sussurro del mondo, che attraversava più di un secolo di storia americana seguendo le vite di dieci personaggi, ricostruite fin nella loro genealogia ma accomunate dalla presenza degli alberi, che – in quanto comunità perennemente insidiata ma capace di prodigiose forme di resilienza o addirittura di resurrezione – fungevano da protagonista collettivo del libro, Powers ha finalmente ottenuto il successo di pubblico che finora non gli era mai arrivato, e ha trovato un’importante comunità di lettori anche in Italia.

Un quartetto amoroso
Non stupisce allora che il suo editore, la Nave di Teseo, si sia lanciato nell’impresa di proporre ben tre sue opere: i primi due romanzi, Tre contadini che vanno a ballare e Il dilemma del prigioniero, usciti in passato per Bollati Boringhieri ma ormai irreperibili, e soprattutto The Gold-Bug Variations, forse il libro più importante e complesso di Powers, finora mai tradotto.

Il titolo scelto per l’edizione italiana, Canone del desiderio (traduzione di Licia Vighi, pp. 726, € 25,00), allude coerentemente a quello che, riducendolo ai minimi termini, è l’intreccio del libro di Powers, articolato su due diversi tempi narrativi scanditi da altrettante storie d’amore. La prima risale agli anni Cinquanta e ha per protagonista Stuart Ressler, un giovane scienziato che raggiunge Urbana, nell’Illinois, per unirsi a un gruppo di ricercatori impegnati a decifrare i misteri del Dna, si innamora di una collega sposata e viene da lei iniziato ai misteri della musica; la seconda si svolge negli anni Ottanta ed è centrata sull’incontro tra la voce narrante della storia, Jan O’ Deigh, giovane bibliotecaria affascinata dalle coincidenze temporali e dal mistero della conoscenza, e un programmatore appassionato di storia dell’arte, Franklin Todd, il quale chiede a Jan di aiutarlo a svelare l’identità e la storia di un suo misterioso collega di lavoro. Il quale altri non è che Stuart Ressler, ormai lontano dalle tentazioni e dal sogno di una brillante carriera, e caduto nell’oblio. Ricostruendo la storia di Ressler e la sua passione per tutte le forme di linguaggio codificato, Jan e Franklin finiranno per innamorarsi a loro volta, chiudendo un ideale quartetto regolato dalle leggi imprevedibili e in larga parte inspiegabili del desiderio.

Titolo corretto, dunque? Sicuramente necessario e commercialmente più attraente di qualunque traduzione fedele dell’originale, un gioco di parole tra le Variazioni Goldberg di Bach, donate a Stuart dalla donna di cui è innamorato, e Lo scarabeo d’oro di Edgar Allan Poe. In altri termini, tra un capolavoro fondato su trenta variazioni di una medesima aria e il racconto di una caccia al tesoro centrata sull’arte della decrittazione. Due opere che sommate formano, per riprendere il titolo italiano del romanzo, una sorta di canone; due opere, per giunta, considerate a lungo meri esercizi di stile e di tecnica, finché la critica del Novecento non ha saputo svelarne la ricchezza tematica e lo stretto legame tra perfezione architettonica, invenzione e temperatura emotiva.

Attraverso Bach e Poe, è come se Powers tematizzasse la vera natura del suo romanzo e al tempo stesso ne anticipasse l’incerta fortuna critica. Pur riconoscendo lo sforzo monumentale compiuto dall’autore e la profondità delle sue conoscenze scientifiche e musicali, molti dei recensori hanno infatti espresso forti riserve su ll canone del desiderio, evidenziandone ora gli eccessi di concettosità, ora una sostanziale freddezza, ora addirittura una certa goffaggine nella descrizione delle schermaglie amorose tra i personaggi.

La lingua del Dna
Sono critiche forse non del tutto insensate, ma che non colgono nel segno perché perdono di vista il vero obiettivo perseguito da Powers, in questa come in quasi tutte le sue opere: un corto circuito tra scienza e arte, ricerca astratta e concretezza del desiderio, verità sperimentale e intuizione creativa, da realizzare attraverso la potenza del linguaggio e la poesia dei suoi codici. Per Stuart Ressler, che del libro è, se non il protagonista, la figura più affascinante e risolta, la posta in gioco, in tutta la sua vita di scienziato, rimane sempre la stessa, ed è attraverso Bach e Poe che ne intuisce la natura, traducendola in questa riflessione rivolta al gruppo di ricercatori con i quali lavora: «Il cuore del codice deve nascondersi nella sua grammatica. Il canone che stanno cercando non è tanto cosa dice una particolare stringa di DNA, ma come la dice. Per la prima volta, è possibile fare qualcosa di più che tenere la porta aperta con una bietta. Devono spalancare il mezzo dell’articolazione molecolare. Devono imparare, con la scioltezza della persona madrelingua, un linguaggio sufficientemente complesso e flessibile da creare quel vantaggio straordinario del parlare da soli. Il tesoro nel racconto di Poe non è l’oro sepolto ma il lampo d’intuizione del crittografo, l’artificio, la chiave linguistica che dà accesso non solo alla mappa disponibile ma a qualsiasi scrittura segreta».

Se il canone sta nel come e non nel cosa, nel codice e non nell’oggetto, nell’intuizione del crittografo e non nell’oro sepolto, la genetica non può che entrare in corto circuito con la musica o la letteratura, che di ogni scrittura segreta sono insieme artefici e custodi. La danza che ne consegue, nella quale l’immersione nell’arte, la ricerca della verità scientifica e la scoperta del desiderio si alternano fino a farsi intercambiabili, copre per intero le 726 pagine del romanzo. Merito di Licia Vighi, già bravissima traduttrice del Sussurro del mondo, averne assecondato e riprodotto le figure, in un’impresa che ha del prodigioso.