A chi chiede perché sia giusto ricordare questo o quello scienziato appena scomparso, le risposte vanno da «naturalista geniale» a «grande biologo» o «il matematico più influente dei suoi tempi». Alcuni sfuggono ad ogni possibile etichetta. Magari, perché nel loro percorso scientifico sono stati in grado di mettere insieme qualità apparentemente lontane, come la capacità di entrare in intimità con i processi naturali, fin nei loro aspetti di dettaglio, e la vastità dei loro interessi. Oppure perché ci hanno mostrato come la conoscenza del mondo e dei suoi fenomeni non sia un esercizio verticale, una sorta di ascesi che si sviluppa all’interno dei dettami di questa o quella disciplina, ma piuttosto vada perseguita guardando intorno e anche lontano da noi. Richard Lewontin, scomparso solo pochi giorni fa all’età di 91 anni è stato indubbiamente uno di loro.

SI POTREBBE DIRE che, in fondo, lui fosse in qualche misura un predestinato, visto che nei primi anni ‘50, dopo aver conseguito un master in matematica ad Harvard, era passato a studiare zoologia alla Columbia University sotto la guida di un maestro come il grande studioso dell’evoluzione Theodosius Dobzhansky. Aveva poi avuto compagni di viaggio del livello di Stephen Jay Gould e Richard Levins. Ma, a ben guardare il suo percorso ha seguito una traiettoria del tutto personale.

Lewontin ha compreso prima di altri quanto lo sviluppo di metodi innovativi fosse importante per comprendere la diversità genetica all’interno e tra le popolazioni. Metodi matematici, il suo primo amore, ma anche metodi biochimici. Come l’elettroforesi, una tecnica che sfrutta la capacità delle di alcune proteine di migrare più o meno velocemente in un gel sottoposto ad un campo elettrico in base alle caratteristiche dei geni da cui sono codificate. Oggi che il Dna ha perso buona parte dei suoi misteri, la semplicitià dell’elettroforesi può far sorridere. Ma è grazie ad essa che Lewontin nel 1966, studiando uno dei principali organismi modello (la Drosophila, il moscerino della frutta), potè ribaltare l’idea allora imperante di una notevole uniformità genetica tra gli individui all’interno delle specie. Questo fu il primo passo verso un cambiamento radicale in biologia: il riconoscimento del ruolo dell’evoluzione dei caratteri su base neutrale, oltre a quello alla selezione naturale, nel determinare la diversità genetica.

Nel tempo, Lewontin avrebbe proseguito lungo questa strada, sviluppando una critica alle teorie di Edward Osborne Wilson, il fondatore della sociobiologia, di cui criticava il ricorso sistematico ai processi adattativi come motore dell’evoluzione biologica. Ma non mancherà di dare un contributo importante allo studio della selezione naturale, introducendo l’idea che gli organismi non siano semplicemente soggetti passivi ma siano in grado di modificare le pressioni selettive a cui sono sottoposti modificando attivamente il loro ambiente.

GLI STUDI di Richard Lewontin hanno lasciato un segno importante anche in biologia umana. Nello storico lavoro The Apportionment of Human Diversity pubblicato nel 1972, egli ha per primo dimostrato l’insussistenza del concetto di razza nell’essere umano, evidenziando che la gran parte della diversità genetica (circa l’85%) è già presente all’interno delle singole popolazioni che appartengono a ciascuna «razza», mentre quella spiegata dall’appartenenza a razze diverse è assai ridotta (circa il 6%). Proprio il contrario di quello che unità «pure» e discrete come le razze dovrebbero essere.

Un ultimo aspetto per cui Lewontin merita di essere ricordato è il suo impegno contro l’uso degli Ogm e della automazione esasperata in agricoltura, in difesa dei lavoratori agricoli. Non sembri questa una dicotomia, ma piuttosto una testimonianza di quella ampiezza di vedute di cui si parlava all’inizio. Lo stesso Lewontin scrisse di essere stato influenzato dalle idee di Marx ed Engels nello sviluppo delle sue teorie scientifiche. Ma, evidentemente, anche nell’aspirazione a una società più equa, in cui il progresso non diventi strumento di discriminazione. Quante cose da ricordare ci hai lasciato, Richard.