Né i fatti raccontati, né il carattere dei personaggi sono responsabili delle pagine migliori di Richard Ford, bensì il tempo nel quale si muove la sua prosa, che è il tempo di una esitazione prolungata. Fra il presente dei gesti necessari, e l’invadenza del passato dove è ancorato ciò che più conta, uomini spesso al limite della qualunquità, e tuttavia non così trasparentemente inespressivi da figurare come emblemi letterari di una speciale condizione umana, si muovono in uno stato di vaghezza prossimo allo stordimento, mentre le donne agiscono reclamando gesti fuori contesto, prendendo decisioni, a volte morendo.

I protagonisti degli ultimi racconti di Ford, ora raccolti in Scusate il disturbo (traduzione di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli, pp. 288, € 18,00) sono perlopiù approdati alla soglia della vecchiaia, abitano nel sud degli Stati Uniti oppure nel Maine, hanno parenti irlandesi o lo sono loro stessi, e hanno perso una persona importante o, nella migliore delle ipotesi, qualcosa nella loro vita è andato storto. Vivono di aggiustamenti necessari a mantenere dignitosa la successione delle giornate, di sommessi patteggiamenti tra il presente e il dolore, e rimuginano consapevoli, minuto per minuto.

La trattativa tra quanto c’è e quanto è venuto a mancare non sempre è per loro drammatica, ma neppure si illudono di potere abitare qualcosa di diverso da uno stato malinconico. E tuttavia non conoscono quel cinismo che a volte sollevava dal presente il personaggio prediletto di Ford, l’agente immobiliare Frank Bascombe, l’uomo che teneva ancora il filo dei bellissimi racconti di Tutto potrebbe andare molto peggio (Feltrinelli 2015), ambientati all’indomani dell’uragano Sandy, sulle coste del New Jersey.

Succede a New Orleans
Qui, quegli uomini e donne che, in quanto personaggi, funzionano per Ford come «la sintesi delle nostre memorie e del nostro senso del futuro», si succedono in nove racconti, alcuni di lungo respiro, a dare vita a situazioni che, per quanto diverse, portano a stati d’animo ricorrenti. In «Niente da dichiara.re», l’avvocato Sandy McGuinness e una donna che gli astanti chiamano Miss Nail si ritrovano a trentacinque anni di distanza dalla storia che avevano avuto quando erano entrambi studenti a Ithaca e avevano deciso di passare insieme una vacanza in Islanda. Poco a poco quel viaggio si era allontanato, diventando «una buona storia da raccontare», e niente di più. Ora sono a New Orleans, in un albergo dove lei è ospite e lui partecipa a una riunione di avvocati civilisti: Miss Nail riconosce l’ormai quasi anziano amante, vanno a passeggio, poi lei gli chiede di baciarla e lui o fa: qualcosa del loro passato è rimasto in sospeso, hanno voglia di cercarsi ancora, non abbastanza tuttavia da portare a compimento quel che si era interrotto. Una sorta di mancanza di vitalità pervade il racconto, l’atmosfera si muove appena, ma lungi dal distrarsi il lettore di Ford è indotto a penetrare più a fondo la leggera frustrazione che sale dal tempo stagnante, mentre le parole tra i due ex amanti sembrano alludere più che altro ciò che non accade, e il racconto si avvia all’epilogo sprofondando in uno stato di rassegnazione malinconica.

Sulle spiagge del Maine
Ford assegna a molti dei suoi protagonisti la nazionalità irlandese che era stata del padre, ma le coincidenze finiscono qui: lui era «l’uomo della frutta e verdura» nell’emporio di Hot Springs quando conobbe la madre di Ford e, sebbene nel tempo avesse guadagnato mestieri migliori, non avrebbe mai avuto accesso alla condizione sociale che riguarda i personaggi di questi racconti.

In «Happy», per esempio, Tommy e Esther Parr sono due romanzieri che hanno invitato nella loro villa sul mare una coppia di galleristi di successo: l’intenzione è di preparare un falò per festeggiare la fine dell’estate nel Maine, ma piomba tra loro Happy con la notizia che il marito è appena morto. L’uomo, Mick Riordan, un irlandese, era stato l’editor di Tommy, la cui consapevolezza di mediocrità aveva agito da deterrente alla prosecuzione della carriera. E così i contatti si erano indeboliti, e ora Happy arriva tra loro non proprio come una estranea ma nemmeno come una amica affezionata. Il racconto va e viene aprendo lunghi incisi che pescano dal passato i tasselli necessari a ricomporre l’attraente mosaico dei tempi in cui tutti insieme avevano diviso la loro stagione migliore. La donna che ha perso il marito, una artista le cui installazioni «re-inquadravano il mondo naturale», si ubriaca, provoca ripetutamente i suoi ospiti, lacerati fra l’obbligo di onorare, in un giorno di lutto, il loro antico legame, e l’insofferenza del presente cui questo legame non appartiene più. Ancora una volta, la sera cala sulle molte cose che i due avrebbero da dirsi ma non dicono, e il racconto si chiude in una sorta di mancata risoluzione di intenti.

La perdita di una persona amata è senz’altro la ricorrenza più insistita nella biografia di questi personaggi: in due tra i racconti più belli, a morire sono le mogli del protagonista. Accade in «Seconda lingua», dove l’ingegnere petrolifero Jonathan Bell assiste al malore di Mary Linn, e tutto precipita in un attimo: «Morire fu probabilmente l’unico vero sintomo che provò». A un intervallo di tempo popolato di «ombre profonde, furiose e torbide», segue l’incontro con la fascinosa Charlotte, agente immobiliare del lussuosissimo loft newyorkese che Jonathan sta per comprare. In tre mesi si sposano, ma rapidamente lei arriva alla conclusione che il matrimonio non è una sistemazione vantaggiosa per i loro sentimenti, con la stessa naturalezza con la quale si erano incontrati ora si separano: ancora una volta, una sorta di iato diventa la condizione naturale in cui quel che resta si svolge, e il fascino del racconto è dovuto al sostare in uno stato di sospensione, lasciando appena intravedere il precipizio emotivo in cui il protagonista potrebbe cadere e non cade.

Più profonda e combattuta, la disperazione di Peter Boyce dopo la perdita della moglie suicida, occupa senza clamori lo spazio del racconto più riuscito di questa raccolta, «Mantenere il controllo». L’uomo, un legale di successo nel campo immobiliare, torna a passare l’estate nel Maine, poco lontano dalla casa che affittava con la moglie. Le sue giornate sono interrotte da piccoli accadimenti dai quali si lascia sfiorare: al bar, incontra una ragazza buttata fuori di casa dal fidanzato. Per lei Ford disegna uno dei suoi profili migliori: si chiama Jenna, è ubriaca, chiede a Peter se sia per caso un assassino, o se voglia portarla a letto, poi lo informa del fatto che suo padre aveva lo stesso nome, Peter, e questo – conclude – vorrà pure dire qualcosa.

«Che posso fare per aiutarla?» Di tutto Peter ha bisogno durante quei giorni in cui l’angoscia per la moglie morta gli crolla addosso quando meno se lo aspetta che andarsi a cercare compagnie moleste; ma intanto ha parlato. Le buone maniere introiettate si dissociano dalla protesta del dolore e Peter offre ospitalità alla ragazza. «Ecco una pessima idea». Tutto il racconto, tra le pagine migliori di Ford, è una successione di tempi sincopati, lampi di richiami al presente, poi lunghe divagazioni del pensiero nel passato, poi di nuovo flash di ritorni al qui e ora: i piccoli assestamenti che servono per sistemarsi nel dolore.