Londra, 1898: i grandi magazzini Harrods inaugurano qualcosa di mai visto, le prime scale mobili. Grande è l’eccitazione collettiva e all’uscita dalle scale premurosi inservienti sono pronti a offrire ai traballanti avventori, traumatizzati dall’esperienza, sali balsamici da inalare e del brandy. L’Ottocento europeo, nell’immaginazione collettiva, è stato anche questo, forse soprattutto questo: il tempo dell’innovazione che dà luogo alla società moderna, in cui gli spazi si accorciano (grazie alle ferrovie, al telegrafo, alla nave a vapore) proprio mentre la comunicazione si allarga (con la diffusione dei giornali e l’affermazione della fotografia). E ciò mentre la scienza schiera contro le epidemie e le malattie endemiche il nuovo arsenale dei vaccini, degli antisettici e dei farmaci da banco, dagli anestetici all’aspirina.

Un duro primato
Una straordinaria fucina di mutamento, insomma, capace di produrre alcune grandi opere memorabili (la Tour Eiffel, il Canale di Suez…) nonché in ultimo, nella belle époque, le invenzioni che avrebbero segnato la vita collettiva del secolo successivo: l’automobile, il cinema, la radio, la diffusione dei bagni privati, l’illuminazione delle case e delle città.

Di questo e di molto altro parla il grande (anche per la sua mole) volume di Richard Evans, Alla conquista del potere Europa 1815-1914 (traduzione di David Scaffei, Laterza, pp. 1014, € 38,00) opera di sintesi magistrale, come si addice a un autore che, già Regius Professor a Cambridge, è certamente tra gli storici britannici più noti (per le sue ricerche sul Terzo Reich ma anche per le polemiche sul negazionismo), più letti e ammirati.

Attento a non cedere alla tentazione di consegnare al lettore la visione trionfalistica di un Ottocento osservato unicamente come secolo del progresso, Evans introduce nel volume a mo’ di correttivi tutta una serie di differenti tematizzazioni: la prima riguarda la globalizzazione imperiale.

L’Europa raccontata nel volume non è isolata e studiata in sé stessa ma immersa in un più vasto scenario, che è poi il teatro della sua espansione mondiale; se nel Settecento il Vecchio Continente aveva affermato una superiorità complessiva, nel XIX secolo esso esercita un duro primato globale: in breve, ci ricorda Evans citando una famosa poesia di Rudyard Kipling –The white man’s burden – il fardello dell’uomo bianco grava tutto sulle spalle dei popoli colonizzati.

Alle violenze sfrenate del dominio coloniale si sommano poi quelle indotte dalle nuove idee di superiorità razziale, che sostengono i progetti imperiali e spingono a considerare i popoli sottomessi come inferiori perché «selvaggi, sudici e pessimi». Quella che si va configurando non è dunque un’epoca di progresso unilineare e di indefinito miglioramento, ma un itinerario incerto e contrastato, con sviluppi che lasciano presagire l’enorme carico di violenze e di distruzioni che segneranno poi la prima metà del Novecento. Se ad esempio le diseguaglianze più arcaiche tendono a scomparire, se ne affermano di nuove, altrettanto e ancora più sanguinose. E con esse si fanno avanti nuovi bisogni di emancipazione e nuove ansie di liberazione.

Influenze aristocratiche
Una seconda tematizzazione punta così a mettere in luce la serie infinita di conflitti che dividono la società europea (tra nazioni, tra classi, tra religioni, tra ideologie), e le spinte diverse al cambiamento politico-sociale, accomunate dalla lotta all’oppressione e dal perdurante fascino per la rivoluzione: il 1820-21, il 1848, la Comune di Parigi… Inoltre, Evans si premura di dare conto di quella che Arno Mayer ebbe a definire la persistenza dell’antico regime documentando con forza come le cesure rappresentate dalla Rivoluzione Francese e dalla Rivoluzione Industriale, pur fondamentali, non disegnino tuttavia uno scenario completamente inedito, un mondo rivoltato e fatto del tutto nuovo, perché invece le tradizionali strutture socio-economiche, segnate dalla preponderanza del mondo rurale, continuano a lungo a dominare larga parte dell’Europa.

Il XIX secolo non è stato insomma solo il secolo della ville lumière, popolata da individui sradicati, snob o blasé afflitti dalla malattia dei «tempi moderni», ma anche un‘epoca di perdurante centralità delle campagne e dei rapporti consuetudinari di produzione e di consumo. Anche sul piano delle strutture politico-culturali, inoltre, i tradizionali gruppi dominanti aristocratici hanno continuato a esercitare una vigorosa influenza. Infine, abbattuti gli storici flagelli epidemici, le carestie tornano però a tratti a imperversare (tragicamente celebre quella irlandese) e ciò fino a quando, sul finire del secolo, si avvierà la cosiddetta rivoluzione demografica.

Evans è soprattutto attento a non rimanere prigioniero della narrativa di scala tolstoiana, che pure informa gran parte del libro, quella che ruota intorno alla centralità della storia politico-diplomatica informata da un racconto distaccato, proveniente dall’«occhio di Dio che tutto vede». Pur aderendo a una visione ampia dei processi storici, Evans è infatti sensibile alla necessità di far percepire al lettore lo «spirito del tempo», di «trasmettere viceversa il senso dell’atmosfera del periodo, allo stesso tempo estranea e familiare, dando per quanto possibile voce a chi visse allora».

Ecco allora, all’incipit di ogni capitolo, tratteggiata per qualche pagina la storia di alcune figure-simbolo: lo scalpellino Jakob Walter che scrive le sue memorie avendo prestato servizio come soldato semplice di fanteria nella grande armée di Napoleone; il servo della gleba Saava Dmitrievic Purlevskij, nato nel villaggio di Vilikoe, nella Russia centrale, che, nel corso di una vita avventurosa, riesce a raccogliere abbastanza denaro per affrancare la sua famiglia, coronando la sua ascesa sociale con la gestione di un bar in città; il padovano Giovanni Battista Belzoni, figlio di un barbiere, che divenuto in un primo tempo famoso per la sua forza erculea (si esibiva piegando sbarre di ferro e spezzando catene di acciaio) studierà per affermarsi come uno dei primi egittologi, collezionista e trafficante di reperti antichi.

Donne meritevoli
Grande rilievo (molto politically correct) ha il ruolo delle donne: l’aristocratica viennese Hermynia zur Mühlen, che, sposata a un proprietario di terra baltico, è così scioccata dalla povertà dei contadini estoni suoi dipendenti da permettere loro volentieri di rubare il cibo, e intanto sfida il marito suonandogli la Marsigliese e bruciando i suoi giornali reazionari; la celebre Emmeline Pankhurst, leader del movimento inglese di emancipazione femminile; e soprattutto Flora Tristan, scrittrice e femminista, che mescola con passione il socialismo alla rivendicazione dei diritti delle donne, perché «la moglie del più oppresso proletario è la proletaria del proletariato». Non a caso, proprio a una sua frase, «l’unione crea il potere», Evans si è ispirato per scegliere il titolo del libro, quella «conquista del potere», un po’ generica ma suggestiva, attorno a cui si affanna variamente l’Europa dell’Ottocento.