È un piccolo film An di Naomi Kawase, e non in termini di budget o in senso di valore ma per quella preziosa tensione di vita qui ancora più sussurrata che altrove. An è la storia di un incontro, tra una anziana signora dai modi un po’stravaganti, che conosce il segreto per fare una perfetta pasta An, la crema di fagioli rossi che devono essere amalgamati con cura e delicatezza per raggiungere il sapore perfetto. L’uomo del chiosco di dolci invece compra quella industriale, e i suoi dorayaki sono senza sapore. Non ci metti cuore dice la vecchina che ai fagioli parla e sa ascoltarli, sentire le loro voci e i loro ricordi di vento e di pioggia.

È un film sull’ascolto An e non solo perché mette insieme generazioni diverse che si trasmettono conoscenze antiche, come quella della pasta An, per ciascuno dei protagonisti infatti l’altro diviene rivelazione di un mondo. nel rituale della cucina, in quello spazio ristretto, attraverso Tokue, il nome della vecchina, Kawase ci racconta un lato nascosto del Giappone, la discriminazione contro i malati di lebbra, come è stata lei da ragazza, condannati per sempre a vivere lontani dal mondo, rinchiusi nei sanatori anche dopo la guarigione. Solo nel 1996 è stata approvata una legge che gli permette di uscire anche se l’emarginazione continua.

L’importanza del passaggio di conoscenza, e questa capacità di ascolto attraversano sempre le storie della regista giapponese che nel raccontarle miscela come la sua protagonista l’impasto di un equilibrio delicato e insieme complicatissimo come l’incontro tra diverse solitudini, e la fatica di essere se stessi in un sistema di regole sociali rigidamente conformista. Le «lezioni» di Tokue (la meravigliosa Kirin Kiki, attrice molto popolare in Giappone) su come preparare la pasta An diventano commuoventi lezioni di vita, e ci parlano della battaglia ostinata di qualcuno che ha trascorso l’esistenza cercando di sconfiggere il luogo comune. Nelle mani deformi di Tokue rimangono nel contemporaneo i segni del trauma del Giappone nel dopoguerra quando appunto un lebbroso era visto come una vergogna e la famiglia doveva sbarazzarsene per il resto della vita.

Con semplicità Kawase sa ancora una volta catturare la bellezza, che non sono immagini sontuose ma una poesia dolce e soffusa della vita, un soffio di vento, la luce tra i petali in fiore, un canarino giallo che ritrova la sua libertà.