Dieci anni di tagli all’università e alla ricerca hanno portato a questa situazione: l’Italia ha il più basso numero di dottorandi di ricerca in Europa. Da quando è stata imposta la riforma Gelmini – accompagnata dal mega taglio di 1,1 miliardi al fondo di finanziamento degli atenei – il calo è stato del 41,2%. Nemmeno il sussulto dell’ultimo anno (9250 posti in più, il 5,5%) è servito a frenare questa valanga. Al termine del dottorato, e di un successivo assegno di ricerca, il 90,8% dei ricercatori deve cambiare mestiere, oppure emigrare. Al restante 9,2% si spalancano le porte di una lunga precarietà.

Questo è il bollettino di guerra sul dottorato e sul post-doc contenuto nella settima indagine annuale dell’associazione dottorandi italiani (Adi). Dall’analisi emergono anche alcuni dati strutturali sulle diseguaglianze territoriali tra gli atenei del Nord e del Sud del paese. Il 49% dei posti è bandito al Nord, il 29% al Centro, il 21% al Sud.

Sono concentrati in dieci gli atenei (di cui 8 al Nord) a bandire i posti. Non solo ci sono poche borse, ma queste sono concentrate in maniera diseguale, al punto che l’Adi parla ormai di un sistema di «compressione selettiva».

Aumentano gli atenei che prevedono la tassazione per i dottorandi con borsa di studio. La media è di poco superiore ai 600 euro, ma tra ateneo e ateneo le differenze sono enormi: si passa dai cento euro di Udine ai 2.230 euro dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Quello del dottorato di ricerca- il primo, e più importante, canale per trasformare un laureato in ricercatore – è un mercato totalmente «liberalizzato» e precarizzato. Stessa situazione si presenta per il livello superiore: l’assegno di ricerca. Il 58% è al Nord, il 48% è concentrato in soli 10 atenei, nessuno di questi è al Sud.

E per i ricercatori veri e propri, i cosiddetti «RTDa» e «RTDb»? Il saldo è negativo: -922 unità. Le poche assunzioni di questi anni non sono bastate a tamponare i pensionamenti. La notte della ricerca continua.