Le cifre fornite quotidianamente dalla protezione civile, a detta di molti osservatori, sono sempre meno significative. Se le prendessimo per buone, il virus in Italia dovrebbe avere una mortalità tre volte superiore a quella osservata altrove.

Non solo: anche passando dal Veneto alla Lombardia il virus diventa apparentemente quattro volte più letale.

Siccome il virus è sempre lo stesso, questi dati anomali si spiegano con una sottostima dei casi contagiati in Lombardia, che in confronto a quasi quattromila vittime fanno sembrare il virus più cattivo di quello che è.

E poiché la Lombardia rappresenta quasi la metà dei casi in Italia, il dato locale fa sballare anche quello nazionale.

 

La sottovalutazione del numero dei contagiati nasce dalla difficoltà di effettuare tutti i test necessari. La difficoltà è certificata anche dai dati dell’Istituto Superiore di Sanità. Se a febbraio tra la comparsa dei sintomi e il test trascorrevano in media tre giorni, ora il tempo di attesa medio è di cinque giorni.

Nel frattempo, l’urgenza è persino aumentata perché il rischio che anche i pazienti asintomatici possano trasmettere il virus sembra sempre più accertato. Significa che le persone potenzialmente infette sono molte di più e bisogna trovarle e isolarle in fretta.

Negli ultimi giorni, alla task force del governo si pronuncia sempre più spesso la frase «facciamo come in Corea del Sud».

Che cosa significhi trasferire in Italia il modello coreano lo spiega Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Oms e consulente del ministero in questa delicata situazione. «Vuol dire effettuare il test al momento dell’insorgenza lieve dei sintomi, anche in presenza di un solo sintomo come mal di gola o tosse, cioè in una fase precoce dell’infezione. E poi abbinare il test a una tracciatura iper-tecnologica sia di una persona che dei suoi contatti in modo rapido».

Si può fare? «Sulla tecnologia siamo assolutamente fiduciosi», spiega. «L’Italia sta ricevendo un formidabile contributo da parte di ricercatori sia in ambito accademico che aziendale. Stavano già lavorando in questo senso».

In Europa c’è più attenzione alla privacy che in Corea, si dice. «Certo, dovremo cercare di illustrare bene il progetto al garante per la protezione della privacy. Ma su questo c’è uno sforzo congiunto da parte del ministero della salute, del ministero dell’innovazione tecnologica e anche del ministero dell’economia». Se si coinvolge anche il ministero dell’economia, significa che forse si useranno anche i dati delle carte di credito.

Finora però il problema non ha riguardato il reperimento delle informazioni, ma la difficoltà di organizzare tutti questi test. Trovare più contatti ma non riuscire a fare i tamponi sarebbe uno spreco di risorse. «Se ci organizziamo, le risorse per i test ci sono. È chiaro che dobbiamo incrementarle», ammette Ricciardi. «La rete diagnostica dovrà essere rafforzata, specialmente al sud. L’allargamento ad altri laboratori deve rispettare norme nazionali, ma deve essere fatto dalle Regioni».

Il caso pugliese

In alcune regioni il rafforzamento è già a buon punto. In Puglia se ne sta occupando un epidemiologo di primissimo livello come Pierluigi Lopalco. Per lavoro insegna all’università di Pisa, ma il presidente della Puglia Emiliano il 9 marzo lo ha messo a capo della task force regionale.

Proprio dalla Puglia giungono diverse testimonianze di pazienti che attendono da giorni di fare il test. «Ora test si fanno», spiega Lopalco. «Ma se si raggiunge la saturazione della capacità della rete diagnostica, può succedere che i risultati non arrivino in un giorno, ma si debbano aspettare 36 o 48 ore».

In Puglia si stanno verificando diversi contagi tra gli operatori sanitari: sono il 29% dei casi di cui si conosce la professione, ma si sta correndo ai ripari. «Per gli operatori sanitari ora bastano i sintomi sospetti per far scattare il test, non serve un contatto noto con una regione a rischio: abbiamo esteso il concetto di zona a rischio a tutta l’Italia».

E per gli altri? «Se hanno sintomi lievi e nessun contatto con altri casi (a prescindere dalle zone, che non hanno più valore) non vengono sottoposti a test ma devono restare in osservazione. Se riferiscono un contatto con un caso di polmonite o con un caso confermato diventano casi sospetti e si fa il tampone».

Anche con queste regole, che allargano i test da eseguire quotidianamente, per ora la rete diagnostica tiene. «Fino a ieri abbiamo contato 800 casi su 6000 test. Significa che il 12% dei casi monitorati risultano positivi e che per il momento stiamo facendo abbastanza test».

Ma se la situazione dovesse peggiorare, i laboratori pugliesi andranno presto in saturazione. «Quando aumentano i casi, anche i contatti da tracciare e sottoporre a test aumentano in modo esponenziale. Attualmente la capacità dei nostri laboratori di analisi è di circa mille tamponi al giorno».

In Puglia il collo di bottiglia è la disponibilità di macchinari e dei reagenti chimici, non il personale delle Asl. «Ogni macchina può eseguire 100 test per volta e ci mette 4 ore», spiega Lopalco.

Bisogna irrobustire la rete dei laboratori diagnostici. «Parecchio è già stato fatto. All’inizio dell’epidemia, in Puglia i test si facevano solo al laboratorio del Policlinico di Bari. Ora i laboratori nella Regione sono sei. E stiamo lavorando per arrivare a quattromila tamponi al giorno».

Si sono aggiunti quattro ospedali tra Foggia, Barletta e Lecce. È stato arruolato anche l’Istituto zooprofilattico di Foggia, dove si studia la salute degli animali e su virus come questo c’è molta esperienza. Poi ci sarebbero i laboratori privati. «Sono contrario a costruire un arcipelago di laboratori pubblici e privati. Il test per il coronavirus è delicato, comporta la manipolazione di materiale potenzialmente infetto e richiede esperienza nella lettura dei risultati. Meglio aumentare le risorse negli ospedali pubblici, affiancando nuovo personale a quello esperto. Preferisco frenare la corsa alla sanità privata».