«Questo libro non è un debito. Non è una vendetta. Neppure un omaggio. Questo libro è una necessità, una figura che devo scolpire, un marmo a cui devo strappare lo schiavo che racchiude al suo interno per liberarmi di lui una buona volta e poter andare avanti». Con queste parole, anch’esse scolpite nelle prime pagine di Non andartene docile in quella buona notte (Marcos y Marcos, pp. 182, euro 16, traduzione di Claudia Maria Tarolo), Ricardo Menéndez Salmón svela il fuoco centrale del suo ultimo libro, e la sua diversità rispetto alle opere precedenti: per scriverlo ha dovuto aspettare trent’anni e che il padre morisse.

È IL PADRE lo Schiavo morente di cui bisogna liberarsi; ma in che senso? «Per scrivere del padre, del proprio padre, prima avrei dovuto disimparare, dimenticare quello che avevo letto sui padri altrui. Per parlare del padre non bastava aspirare alla verità delle menzogne, bisognava corteggiare la verità delle verità». Per forza di levare, dunque, come nel gesto michelangiolesco a cui l’immagine dello schiavo scolpito nel marmo sembrerebbe alludere, riaffiora lentamente la figura paterna. È tuttavia uno scavo che sembra possibile solo attraverso l’accumulo di pensieri, ricordi, riflessioni, digressioni proprie e altrui: il libro è attraversato da citazioni e rimandi, dall’arte al cinema, dalla letteratura alla filosofia, echi legge è continuamente sospinto a soffermarsi, sottolineare, interpretare, interrogarsi, insomma a pensare.

Aveva undici anni Ricardo quando il padre si è ammalato gravemente di cuore: è così che l’aggettivo malato «ha cannibalizzato il sostantivo padre» e costretto il figlio a vivere sotto l’aura della malattia. Tutto il discorso del libro ruota intorno a questo centro ossessivo. Gli effetti della malattia sul corpo del padre vengono descritti nei minimi dettagli, con la dovizia di un’anamnesi, ma quando la prosa sembra farsi più secca e irta, è il letterato e la sua lingua a prendere il sopravvento, sfidando l’ineffabilità della morte, con una prosa sinuosa e ricercata: «Visto di spalle, sembrava che un grande carnivoro gli avesse strappato buona parte della spalla con un morso. Non più integro, non più eretto, la sensazione che suscitava camminando era quella di una camicia appesa malamente alla gruccia». L’orrore e lo sgomento di fronte allo sfacelo della carne sono accompagnati da una riflessione lucida e a tratti spietata sull’esistenza del male – tema particolarmente caro all’autore – oltre che da alcune decise, ma sempre garbate, incursioni sul fine vita.

LA MALATTIA porta con sé il suo carico di senso di colpa e presto cannibalizza anche il figlio, ma è anche ciò che ha determinato il suo essere scrittore: «Non a caso, sono convinto che lo scrittore sia il malato per antonomasia, e la letteratura una forma di malattia in sé stessa». Insieme alla malattia, e indissolubilmente legata ad essa, è la letteratura l’altra grande protagonista del libro. A partire dal titolo, primo verso di una poesia di Dylan Thomas, questo libro rende omaggio alla forza vitale dello scrivere e induce una riflessione sul suo potere straordinario: «c’è qualcosa di strano nel riportare alla luce un morto, ma nessuna scrittura è esente dal paradosso». L’idea di letteratura che ha in mente Menéndez Salmón ci viene indicata nell’aneddoto cinese riportato in esergo, in cui un artista, dimenticatosi di dipingere uno zoccolo al cavallo che sta ritraendo, finisce per farlo zoppicare: «Come nell’aneddoto dovremmo scrivere libri in grado di provocare la realtà».

È proprio questo che riesce a fare la scrittura di Menéndez Salmón liberando, o meglio facendo librare sul finale del libro quell’immagine paterna corrosa e sepolta dai veleni della lunga malattia, e affidando a una prosa più distesa e pacificata il compito impossibile di restituire un padre al figlio, e viceversa. «Le conversazioni importanti non si tengono in tempo», aveva constatato lo scrittore all’inizio del libro, ma per fortuna esiste la letteratura a porvi rimedio: infatti, Non andartene docile nella buona notte non può considerarsi un romanzo e nemmeno un vero e proprio memoir, bensì una conversazione intima e necessaria «con la sponda su cui vivono i morti» e, alla fine dei conti, con noi stessi.