Cesare Brandi muore il 19 gennaio 1988. Trentadue anni dopo, la sua opera è sempre viva per merito di Vittorio Rubiu, compagno, allievo, figlio adottivo ed erede del grande critico senese. Non c’è stato momento, nel corso di tante stagioni trascorse dalla sua scomparsa, che la poliedrica attività del poeta, dello specialista nella teoria del restauro, dello scrittore, del grande viaggiatore, del brillante elzevirista, non abbia ricevuto da lui quell’attenzione critica necessaria per sopravvivere all’usura del tempo, all’incalzare delle nuove ricerche e a un sistema dell’arte poco propenso a guardarsi indietro. Quasi Rubiu, riposta la sua storia personale, avesse voluto continuare a percorrere insieme a Brandi il lungo tratto di strada condiviso gomito a gomito, per onorare il patrimonio culturale e letterario al quale era stata affidata la sua posterità.
Mancava, in sostanza, un libro, più volte sollecitato, che, contrassegnando l’attività di un cinquantennio, facesse recedere Rubiu dal credere di avere fiato corto e capacità di dare il meglio solo sul breve, e rendesse conto della sua formazione, dei suoi interessi, dei suoi amici, del suo modo di scrivere, dello stesso peso di Brandi maestro. Un libro, dunque, che attraverso l’arte delineasse un’autobiografia e fosse specchio della stessa collezione messa insieme da Brandi nel corso dei decenni e oggi distribuita in vari musei, a partire dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Perché donare è riprendere a scrivere la propria vita.
La lacuna è stata finalmente colmata da Castelvecchi: Vittorio Brandi Rubiu, Scritti tra arte e vita (pp. 328, euro 35,00), con un’introduzione di Marco Tonelli e una selezione di immagini cariche di storia: tra le prime, rivelatrice di una già radicata capacità di informazione, quella di un viaggio a Berna, nel 1969, per la mostra When attitudes become form curata da Harald Szeemann. Il volume è diviso partendo proprio da Brandi, continuando con Morandi, Burri, Pascali, Fabio Sargentini e L’Attico, chiudendo con le mostre organizzate, le recensioni e le interviste che tutti i temi precedenti amplificano. Un modo per approfondire e confermare come si sia ripetuto, nel rapporto maestro-allievo, il reciproco scambio generazionale iniziato a Venezia in occasione di Ballata senza musica di Aurel Milloss, continuato con la tesi sull’estetica di Brandi per la laurea in filosofia, rinsaldato con la conoscenza dell’ambiente artistico non solo romano (da De Pisis a Morandi, Manzù, Mafai, Raphaël, Scialoja, Guttuso, Leoncillo, Afro, Turcato, Burri…), concluso con la morte di Pascali (11 settembre 1968), intorno al quale ruotano tutti gli artisti degli anni sessanta cari, con le dovute distinzioni, a Rubiu (Mattiacci, Kounellis, Schifano, Lo Savio, De Dominicis, Ceroli…), il quale, tra una mostra e l’altra nelle gallerie del tempo (La Tartaruga, La Salita e soprattutto uno spazio di punta come L’Attico, che segna un sodalizio tuttora vivo, dopo oltre mezzo secolo, con Fabio Sargentini), lancia qualche occhiata a Twombly, appena trapiantato a Roma ma determinante per una sorta di ponte costruito tra l’Europa e l’America, e agli altri che la Capitale attira, da Matta a Sol Lewitt.
Rubiu – la cui scrittura, sull’esempio di Brandi, si snoda limpida come acqua sorgiva fin dall’articolo pubblicato sull’Avanti! il 17 settembre 1966 per l’uscita de Le due vie, letto prima che Laterza lo stampasse –, dopo la lezione ricevuta da una serie di libri memorabili scritti dal suo maestro, e che hanno segnato diverse generazioni (La fine dell’avanguardia e l’arte d’oggi, 1952, Viaggio nella Grecia antica, 1954, Arcadio o della Scultura, 1956, Eliante o dell’Architettura,1956, Celso o della Poesia,1957, Città del deserto, 1958, Segno e immagine, 1960, Carmine o della Pittura, 1962, Burri, 1963), mostra subito il suo «gusto della vita e dell’arte» indicando i sentieri da percorrere, analizzando le matrici linguistiche delle avanguardie, i confronti tra materiali e idee, l’elemento ludico, di parodia, «il tempo ritrovato della fantasia, dell’infanzia, il mito del selvaggio, del primitivo» presenti nel lavoro di Pascali, artista eponimo degli anni sessanta che traccia, a suo vedere, come una sorta di spartiacque con quanto verrà dopo, a partire dal concettualismo. Infatti, Morandi sta a Brandi come Pascali a Rubiu. Entrambi, in un modo o nell’altro, hanno dedicato al «loro» artista la vita, con meditazioni sull’opera, articoli e studi che sottolineano un modello di estetica che ne verifica, nell’inesorabile scorrere del tempo, l’attualità.

Non a caso, lo stesso crinale si rinnoverà dopo la morte di Brandi, e non solo a livello esistenziale. La dialettica del pensiero di quel padre, l’esigenza di riconsegnare, sulla scia di Longhi, la storia dell’arte nel cuore di un’attività letteraria, avevano scavato tanto a fondo da porre l’allievo-erede nelle condizioni di perfezionare non solo il suo approccio con l’opera, ma anche di rigenerare la modernità che non rinnega la tradizione, e di affrontare le stesse predilezioni, subito manifestatesi, per i giovani carichi di avvenire: Morandi lungo il cammino, Manzù e il suo sentirsi nascere nel proprio lavoro, de Chirico e il sottile poetico afflato che accomuna gli oggetti più disparati, dal classico al quotidiano, Martini e la stilizzazione arcaica della forma, Mafai e la libertà pittorica aliena dall’esercitarsi in un’azione diretta sulla materia, Antonietta Raphaël e la rara prerogativa di un’anima appassionata che seppe rimanere ingenua ed estatica sino alla fine, Burri e il viaggio al termine della notte, Lucio Fontana e il gesto vivo di intervenire sul reale, Mannucci e la materia come relitto di vita, Afro e l’unione perfetta e semplice dei colori, Scialoja e il ritmo come misura del tempo e dello spazio, Melotti e i teatrini creati per linee interne, per echi e per contrapposti spesso felicissimi, Leoncillo e le ore d’insonnia e di supplizio per una scultura ricostituita in termini di pittura, Guttuso e i tetti di Sicilia con impianti armonici perfettamente conclusi in se stessi, Turcato e la levità giocosa di forme veramente libere e naturali, Pascali e i cannoni che non sparano, Mattiacci e il secondo Tubismo, Ceroli e il gusto del contatto reale con la materia, Schifano e la spazializzazione elementare del colore, Giosetta Fioroni e la trasformazione del ritrovato meccanico della fotografia nella qualità di un’invenzione pittorica, De Dominicis e la poltrona per un viaggio nello spazio, Acconci e l’happening che non significa ma rappresenta, Romiti e il gusto della tonalità diffusa, Sol Lewitt e l’oggetto come progetto, Twombly e la progressione meticolosa con cui riesce a dare un senso, un orientamento, a una grafia elementare, Carl Andre e l’oggetto che rivela soltanto se stesso, Steve Paxton e la danza come scultura, Robert Whitman e la fantasia come entità fisica, Pizzi Cannella e i raptus psicologici che alimentano i suoi temi, Nunzio e il rapporto fra lo spazio architettonico e quello della pittura e della scultura.
Sono solo piccoli esempi di come Rubiu abbia cercato negli artisti la capacità di manifestare e realizzare l’immagine, non rinunciando mai, nelle sue scelte, alle idee formatesi sul campo, al gusto affinatosi nelle frequentazioni già di per sé selezionate e tali da porlo nelle condizioni, persino senza una ricostruzione storica, di palesare in pieno i caratteri formali delle opere esaminate e la dimensione umana del loro autore, quello stile che non ha bisogno di un piedistallo teorico o ideologico, di enfasi o di pathos, per essere vitale.
Il dialogo di Brandi, nella scrittura e nell’insegnamento, era sempre con se stesso, come un grande incisore che si specchia nella sua lastra. Rubiu, invece, si confronta con gli amici artisti o con Sargentini, interlocutore privilegiato al quale confida perfino le certezze inscalfibili e le insicurezze, le inquietudini, che appartengono non solo a chi scrive d’arte. E se il fratello maggiore, per Brandi fu Argan, nonostante questi avesse tre anni di meno, lo stesso è stato per Rubiu rispetto a Sargentini, quest’ultimo nato undici anni dopo. I tratti del carattere comuni a entrambi? La mancanza di enfasi, e una certa aristocrazia, unite al piacere della scrittura e a uno sguardo lontano dalla noiosa critica professionale.