«Gli animali evadevano dalle gabbie. Aggredivano i custodi. Chiedevano più cibo. Rifiutavano di eseguire i numeri. Rifiutavano di riprodursi. La resistenza poteva essere organizzata. In effetti, gli animali non solo avevano una storia, ma la facevano». Ecco, in breve, la «scoperta» dell’agency politica animale raccontata in Paura del pianeta animale. La storia nascosta delle resistenza animale – saggio del 2010 di Jason Hribal recentemente reso disponibile in italiano da Ortica (a cura di Barbara Balsamo e Silvia Molé, traduzione di Deborah Ardilli, pp. 222, euro 14).
Riannodando i fili di numerose vicende di animali ribelli, lo storico statunitense costruisce una tela variegata, in cui appare evidente che gli animali si oppongono senza sosta al potere che gli umani esercitano su di loro. E questo nonostante millenni di domesticazione, la sproporzione delle forze in campo e gli sforzi di occultamento delle industrie di sfruttamento. Chiaramente, questa scoperta apre uno scenario immenso per la ricerca futura: per esempio, come si modifica la resistenza animale a seconda delle specie e dei generi? Che forme assumono le ribellioni non-abiliste? Come vanno ripensate l’agency e la politica? Il lavoro di Hribal abbatte una delle ultime favole sull’eccezionalismo umano (l’uomo è l’unico animale capace di ribellarsi), mostrando che gli animali sono soggettività in grado di influenzare la storia propria e altrui e non oggetti – da sfruttare o da liberare. Il che, per inciso, ricorda la principale acquisizione dell’operaismo: sono le lotte operaie a indurre il sistema produttivo capitalista a modificarsi e non viceversa. La testimonianza più inequivocabile della resistenza animale è, infatti, proprio l’incessante sviluppo di nuovi strumenti di controllo e di contenzione: se gli animali «da reddito» fossero oggetti inerti che interesse avrebbero le industrie di settore a perseguire tale sviluppo?
La storia «dal basso» di Hribal – che si va ad aggiungere a quelle dei movimenti femminista e decoloniale – non possono che suscitare un moto di solidarietà nei confronti di tutte le vite offese, indipendentemente dalla specie a cui sono assegnate, nella consapevolezza – come ci insegnano, tra gli altri, M49 e compagni/e e tutte le storie di ribellione raccolte dal collettivo Resistenza Animale nel blog omonimo – che gli «animali sanno cos’è la libertà e la desiderano».

La resistenza animale è un fenomeno invisibilizzato. Come è riuscito a «vederla» e quando ha pensato di studiarla in maniera sistematica?
Nella primavera del 1999 dovevo scegliere un argomento per un seminario universitario. Andava raccolta un’abbondante quantità di fonti originarie; alla fine decisi di prendere in esame lo zoo locale. A quel tempo il mio interesse per gli zoo era scarso se non inesistente. Leggendo l’enorme mole di articoli giornalistici sullo zoo, cominciai a imbattermi sempre più spesso in animali che scappavano, che attaccavano i guardiani, che si rifiutavano di obbedire agli ordini, ecc. Pensai: «Pazzesco!». Le azioni di resistenza/ribellione erano frequenti e caratterizzate da schemi precisi. Mi domandai: «Come mai nessuno se n’è mai interessato?». Nel decennio successivo, ho proseguito e approfondito questa linea di ricerca, analizzando altri zoo ed estendendo l’osservazione ai circhi. Quello che ho portato alla luce è riportato nel libro.

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Ritiene che la scoperta della resistenza animale dovrebbe indurre a ridefinire il concetto stesso di agency?
Quando, nel 1998, ho iniziato il corso di dottorato, gli altri animali erano pensati in due soli modi. Come merci e tecnologia o come simboli e metafore. Personalmente non ero d’accordo. E così quanto aveva preso avvio con quel seminario sullo zoo locale si sviluppò in un lavoro di ricerca molto più ampio. Mi si sono aperti gli occhi su un intero nuovo mondo di storia animale. Cominciai dall’inizio, domandandomi: in che modo gli altri animali costruiscono il mondo che ci circonda? Stiamo parlando di meri «cavalli vapore» o sono qualcosa di più? La resistenza animale è ciò che permette di vedere questo «qualcosa in più». Si vede la resistenza animale ogni volta che un cavallo si rifiuta di trainare un carro, ogni volta che una mucca incorna un allevatore, ogni volta che un maiale fugge da un recinto. E, specularmente, si vede la resistenza animale ogni volta che un conducente mette mano alla frusta, ogni volta che un allevatore taglia le corna a una mucca, ogni volta che un recinto viene elettrificato. Il conducente non avrebbe bisogno della frusta se i cavalli fossero delle macchine prive di pensiero. Ogni azione comporta una reazione. Non è questo ciò che intendiamo per agency?

Ci sono differenze tra la resistenza umana e quella animale?
La resistenza umana, date le caratteristiche intellettuali della nostra specie, può svilupparsi in maniera maggiormente complessa e organizzarsi su scale molto più vaste. Con quella animale, però, condivide molti più aspetti di quanto si possa immaginare. Per esempio, la maggioranza delle azioni di resistenza umana e animale si realizza a un livello ordinario: rallentamento dei ritmi lavorativi, incremento del numero delle pause, opposizione silenziosa all’esecuzione degli ordini, messinscena in cui si finge di non sapere come si debba svolgere un determinato compito. Le mucche da latte sono maestre nel rallentare le operazioni di mungitura. Le orche si prendono delle pause durante gli spettacoli. Gli elefanti si «scordano» spesso di come vadano eseguiti certi numeri. Gli oranghi possono dare la schiena al pubblico. Possiamo comprendere molto bene questi gesti, dal momento che sono gli stessi che mettiamo in atto anche noi nei nostri posti di lavoro.

Lei descrive molti episodi di ribellione negli zoo, nei circhi e negli acquari. Cosa accade negli allevamenti intensivi e nei macelli?
Se li si volesse vedere, basterebbe dare un occhio ai quotidiani: la stampa è piena di tali episodi. Frequentemente si tratta di fughe durante il trasporto, sia durante le operazioni di carico/scarico sia direttamente dai mezzi di trasporto in movimento. Così una mucca, un maiale o una pecora compariranno di colpo in mezzo a un’autostrada o si vedranno vagabondare in una qualche via periferica. Spesso queste azioni fanno sì che l’animale in questione venga accolto da un rifugio. Per ottenere qualcosa bisogna fare la voce grossa. Detto questo, la gran parte della resistenza animale negli allevamenti intensivi e nei macelli viene deliberatamente occultata. Ma sappiamo che accade proprio grazie alle contromisure messe in atto per controllarla: per esempio, tramite l’utilizzo di pungoli elettrici o la realizzazione di recinti e cancelli più «sicuri». Temple Grandin ha fatto carriera sviluppando metodi di controllo fisico e sociale al fine di prevenire o ridurre la resistenza degli «animali da allevamento».

Come dovrebbe modificarsi l’antispecismo alla luce delle sue osservazioni rivoluzionarie?
Storicamente l’antispecismo è stato un movimento top-down, nel senso che gli altri animali sono stati pensati esclusivamente come vittime dell’oppressione umana. Gli animali non sono mai stati considerati agenti capaci di dar forma alle proprie vite e di creare la propria storia. Ventitré anni fa ho provato ad abbandonare questo modo di vedere gli animali e l’operazione sembra aver funzionato. Oggi molti studiosi e molte studiose si interessano al lavoro e alla resistenza degli altri animali. L’agency animale, come concetto e come realtà, è un’acquisizione ampiamente accettata. E tutto questo sta accadendo su scala globale. Direi che ci stiamo muovendo nella giusta direzione.

Il suo libro è ricco di storie entusiasmanti. Qual è quella che predilige?
A mio parere, la storia più intensa è quella di Janet, un’elefantessa del circo. Dopo essere fuggita e aver affrontato diversi addestratori, Janet raggiunse e afferrò un pungolo caduto a terra. Il pungolo uncinato è lo strumento principe per il controllo degli elefanti. I pachidermi vengono spronati, trafitti, picchiati e terrorizzati con questi bastoni uncinati. Janet lo raccolse con la proboscide e lo sbattè ripetutamente contro un carrozzone del circo, prima di gettarlo di nuovo a terra e darsi, ancora una volta, alla fuga. Questa reazione viscerale, che tanto impatto ebbe sul suo comportamento, è la dimostrazione lampante dell’odio sviluppato da Janet nei confronti della sua schiavitù.