Domenica 28 ottobre – sotto l’alto patronato del ministro della cultura Mohammed Al-Ahmad – le porte del Museo Nazionale di Damasco si sono riaperte dopo sei anni di chiusura. In rete sono disponibili foto e video della cerimonia di inaugurazione, salutata sui media italiani come un «segnale importante di avvio della riconciliazione nazionale» (Paolo Matthiae, La Repubblica) e un «altro passo verso il ritorno a una vita normale» (Elena Panarella e Rossella Fabiani, Il Messaggero).

Tomba di Yarhai

SE DA UNA PARTE le immagini degli straordinari reperti provenienti da siti quali Ugarit, Mari, Palmira, Apamea e Dura Europos (il museo venne fondato negli anni Trenta del Novecento per ospitare le scoperte delle spedizioni straniere nei territori dell’Antico Oriente) possono apparire di conforto rispetto alla violenza delle distruzioni operate dallo Stato Islamico e ben note al pubblico per via della massiccia propaganda sul web, dall’altra quelle stesse immagini di ovattata bellezza stridono con la realtà di una guerra ancora in corso.
Ci si chiede, infatti, come il «risorto» museo di Damasco – istituzione nata per conservare e trasmettere l’eredità culturale del popolo siriano – possa fungere da «via maestra verso la pace» accogliendo pochi privilegiati visitatori. Occorre inoltre ricordare agli studiosi che attribuiscono unicamente all’Isis la responsabilità dei danni subiti dai siti archeologici siriani, che fin dal 2012 (quando il Califfo Al-Baghdadi non aveva ancora proclamato il sedicente Stato Islamico) l’Apsa, Association for the Protection of Syrian Archaeology ha documentato l’indegno disinteresse del governo di Bashar al-Assad per la protezione di rovine secolari e identitarie.

NEL DOCUMENTARIO Les derniers remparts du patrimoine, Cheikhmous Ali – tra i fondatori di Apsa e attualmente ricercatore all’Università di Strasburgo – mostra alla telecamera di Jean-Luc Raynaud le immagini girate sul terreno da archeologi militanti, che rivelano i danni irreversibili arrecati dall’esercito regolare siriano ad Apamea, Bosra e Palmira, solo alcuni fra i siti vittime del conflitto e pedine di un complesso scacchiere politico.

«L’ARCHEOLOGIA è un elemento di pacificazione passivo, l’archeologo non fa la pace ma dimostra la pace», dichiara l’assiriologo Franco D’Agostino che, con la sua équipe dell’università La Sapienza, ha deciso di riprendere gli scavi nel sito iracheno di Abu Tbeira solo quando l’Italia è uscita dalla coalizione di guerra e i fondi per l’attività militare sono stati dirottati nella ricostruzione del paese. A D’Agostino fa eco Giovanna Biga – anch’essa storica del Vicino Oriente alla Sapienza – per la quale è inammissibile considerare un atto culturale la riapertura di un museo di un paese distrutto, inquinato, dove moltissimi bambini non vanno a scuola e la gran parte della popolazione non ha accesso alle risorse vitali.

«TRADIZIONI POPOLARI, artigianato e intelligenze – continua Biga – sono stati seppelliti assieme a mezzo milione di civili. Come possiamo ignorare, poi, profughi ed esiliati, fra cui si contano numerosi studenti giunti negli atenei italiani e a cui il ritorno a Damasco è interdetto?». «In un clima del genere, ben lontano da una normalizzazione – rilancia D’Agostino – non si può pensare di rappresentare la pace promuovendo le iniziative di una sola delle parti in conflitto».