Tutto chiaro. Chiaro che in Machiavelli è centrale il ricorso alla storia antica, giacché «le istorie sono la maestra delle azioni nostre» e «il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avute sempre le medesime passioni». Chiaro pure che tale approccio rischiava d’essere astratto se, come osservava Guicciardini, «si ingannono coloro che a ogni parola allegano e’ romani»: servirebbe «avere una città condizionata come era loro, e poi governarsi secondo quello esemplo». Chiaro infine che l’auctor fondamentale per Machiavelli era Livio: compilato quindi con il diligente regesto dei passi liviani discussi o commentati, soprattutto nei Discorsi, e esaminati in generale i riferimenti al mondo greco e romano, tutto a posto. Chiaro che, dopo celebri saggi e i contributi per il cinquecentenario del Principe, il tema si dica esaurito. Ma il lavoro sembra esser stato svolto talora in forma «meccanica e schematica» (Canfora), sicché lo scavo è proseguito, su altre tracce, andando a riconsiderare anche temi battuti.
Con Il Livio di Machiavelli L’uso politico delle fonti (Salerno Editrice, pp. 292, € 22,00), Andrea Salvo Rossi accantona un punto che ha affaticato tanti ingegni (ossia individuare quale versione di Livio fu tenuta presente), e procede invece a verificare il modo in cui Machiavelli lesse l’amatissimo tra gli «antiqui huomini »: ossia, non da professore, né da storico, né da filosofo, ma da politico, pratico e non teorico. Contò certo per lui lo sguardo sugli antichi portato nelle meditazioni di predecessori: ma come escludere che un più libero ripensamento venisse dai tanti cicli pittorici sui grandi uomini, studiati anni fa da Roberto Guerrini? Detto ciò, conta l’approccio al testo. Machiavelli poté esser un «lettore poco meticoloso delle proprie fonti» (Martelli), ma non per questo diviene fondamentale la caccia agli «errori» o ai «fraintendimenti», alla quale invece qui esplicitamente si rinuncia. Quale fosse il loro genere letterario, i Discorsi non erano un trattato di storia romana. Tra Livio e Machiavelli, si è detto, si situa «un ‘discorso’ da ‘politico’ a ‘politico’. Da politici sconfitti che, come spesso è avvenuto, sono diventati grandi storici» (Mazza). Indicazione proficua, seppure oggi i politici sconfitti preferiscano occupazioni più redditizie che la scrittura di storia.
La libertà di Machiavelli nel citare tradurre e interpretare i passaggi di Livio emerge nel libro da una documentazione discussa in ampiezza (con testo latino e traduzioni): partendo dalle presenti guerre d’Italia e dagli errori dei moderni, i fatti antichi non valevano come astratto modello di leggi storiche, quanto come supporto di riflessioni politiche e esempi di buone pratiche, da meditare e imitare. Appunto secondo la sequenza impostata da Machiavelli, e troppo spesso trascurata: prima la «lunga esperienza delle cose moderne», poi «una continua lezione delle antiche». Perciò le pagine di Livio sono indagate, nei Discorsi, piegando il testo antico come l’argomentazione richiede, anche con rilevanti tagli e pesanti modifiche, per trarne dinamiche utili a costruire un migliore futuro: «sono le azioni e non le parole o le forme artistiche a giustificare il classicismo machiavelliano» (Rinaldi). Una «riappropriazione» guidata quindi non da fedeltà dell’interprete, ma da riflessione di un politico che si confrontava con un repertorio canonico e vi attingeva, in dialogo intenso ma libero.
L’urgenza del presente e il tempo di crisi in cui maturavano le sue meditazioni conducevano Machiavelli non solo a praticare cortocircuiti attualizzanti e polemici (come quello tra i Galli/Celti antichi e i «Franzosi» del tempo suo), ma anche a condensare infedelmente il racconto liviano, a deformarlo o anche a fraintenderlo, capovolgendone il senso, in funzione di una personale argomentazione. Notevoli i casi di isolate frasi o massime, tolte di contesto per «far precipitare su di esse analisi politiche che precedono la lettura del testo e, anzi, concorrono a risignificarlo in profondità» (p. 115). Gesto necessario, una volta ammesso che le vicende umane, governate dalla fortuna e dal tempo, implicano una incessante «variazione» dei fatti, che mutano «fuora di ogni umana coniettura». Un procedimento induttivo rispetto alle storie antiche sarebbe stato inadeguato e inefficace: «non è la lettura di Livio che ispira la teorizzazione politica generale, quanto piuttosto il contrario» (p. 198).
Questo libro è certo più pensato nella prospettiva di un italianista, che si muove tra studiosi dai nomi molto usati, Sasso, Martelli e Inglese. Un più ampio dialogo con gli antichisti poteva giovare, e avrebbe evitato di esprimere idee poco felici su Livio (per es. p. 72), nonché di stroppiare il cognome di un celebre latinista (pp. 132-33, n. 92): più sgradevole un recidivo incidente ortografico italiano (p. 235). Nel complesso, il saggio serve bene a comprendere Machiavelli lettore degli antichi, liberandolo dal condizionamento imposto dalla filologia, dalla storia del pensiero politico, e anche dall’autonarrazione di Machiavelli medesimo («tutto mi transferisco in loro»). Del resto, un riuso assai libero sembra intrinseco alla «fortuna» di Livio, già a cominciare dalle riprese in Tacito. Né mancano esiti bizzarri.
Per celebrare il bimillenario dello storico padovano, nel 1941, si tennero conferenze e incontri. Tra l’altro fu emessa, il 13 dicembre, una serie (con sovrapprezzo destinato all’Istituto di Studi romani) di francobolli ornati di frasi liviane. Una era Bellum iustum, quibus necessarium. Frase granitica, a giustificare una guerra proclamata giusta perché inevitabile. Nell’originale, però, si continuava dichiarando «pie» le armi di chi «non ha altra speranza se non nelle armi stesse». Precisazione che sarebbe suonata di malaugurio, non già di sprone. Giacché a pronunciare la frase, nel libro nono di Livio, era un comandante sannita, che parlava proprio contro i romani, prossimi alla sconfitta caudina. Ancora una frase di Livio decontestualizzata, per versarvi un contenuto politico estraneo all’originale. Pare destino, per «quel padovano, che diceva mirabilmente ogni cosa»…