Nel 1952 Einaudi decide di pubblicare un’antologia di Liriche cinesi, e a firmare la prefazione al volume è nientemeno che Eugenio Montale. Quell’intervento – poi raccolto in Sulla poesia, la raccolta di scritti critici uscita per Mondadori nel 1976 – è utile perché, certo, introduce al pubblico italiano una tradizione poetica lontanissima da quella occidentale. Ma, al contempo, è suggestivo perché offre anche l’occasione di stilare indirettamente un ritratto della lirica europea: Montale ne individua i caratteri fondamentali, fra gli altri, nella divinizzazione del femminile, e nell’umanizzazione del tempo e dello spazio. E finisce col tracciare, anche dal punto di vista della creazione artistica, una ineliminabile linea di separazione fra Oriente e Occidente.

Contatto facile
Queste righe montaliane vengono in mente leggendo, trent’anni dopo, le pagine di un poeta che Gianfranco Contini riteneva il maggiore fra i nati nel Novecento – posponendolo implicitamente proprio al suo Montale, nato nel 1896 – cioè Andrea Zanzotto. Nel 1982 Zanzotto interviene infatti a proposito di un’antologia di Cento haiku, anche stavolta in forma di prefazione (l’editore era Longanesi). Ci spostiamo dunque, con Zanzotto, verso un altro Oriente, quello giapponese. Ma ciò che più attrae, della prefazione zanzottiana, è che con l’haiku giapponese il contatto sia tutto sommato più «facile», possibile – ed ecco infatti Zanzotto buttare lì alcuni nomi che nel grande Novecento poetico hanno attinto alla miniera giapponese, da Blaise Cendrars a Wallace Stevens, passando soprattutto per Ezra Pound. Ci si è potuti impossessare dell’haiku, in Europa, facendo «rientrare quasi in un unico tessuto di lettura (…) componimenti di assai diversa origine ma caratterizzati da una concentrazione e da un’intensità che sembrano insieme del residuo e del diamante, e che vanno dallo haiku giapponese al frammento dei lirici greci», spiega Zanzotto, facendo insomma leva su un ben occidentale, e trans-storico, gusto del frammento (basti pensare, dalle nostre parti, al Quasimodo traduttore, a Ungaretti – che pure è ricordato nel saggio – o a Saba).
La miglior conferma della fruibilità della forma-haiku è comunque fornita dallo stesso Zanzotto poeta in proprio, non di rado ben allineato con il critico. Solo un paio d’anni dopo il saggio appena ricordato, fra la primavera e l’estate del 1984, il poeta di Pieve di Soligo compone una serie di testi che lui stesso avrebbe poi definito ‘pseudo-haiku’. E li compone in una lingua mai praticata prima – in inglese – fornendoli più tardi di una auto-traduzione in italiano. Questi testi – l’ultimo libro licenziato in vita da Zanzotto – verranno pubblicati solo molti anni dopo, nel 2011, con una vicenda editoriale assolutamente singolare: escono infatti per la University of Chicago Press, per le cure di Anna Secco e Patrick Barron. Soltanto ora gli Haiku for a season | per una stagione (Mondadori «Lo Specchio», pp. 136, € 20,00) ricevono un’edizione italiana, nella quale alla nota introduttiva di Secco e Barron si aggiunge, molto opportunamente, la stessa prefazione zanzottiana ai Cento haiku del 1982. Completa il volume un intervento di Marzio Breda, che ha il merito di situare l’esperimento degli haiku in un momento esistenziale complicato per Zanzotto: una forte depressione, l’inizio di una terapia psicoanalitica, e la stesura di piccoli testi-gemme che permettono alla poesia zanzottiana di non essere cancellata dal mutismo e dalla cupezza, anche se ridotta a un minimale bagliore. Il che, in fondo, è il destino di tanta lirica moderna: abbassarsi, spogliarsi, «ridursi» per poter – dentro una nuova «ignoranza» – nuovamente parlare.
A conti fatti, Zanzotto si scontra qui con due ostacoli fondamentali, quello portato dalla forma e quello portato dalla lingua. Quanto al primo, avviene in certo senso, con l’haiku, quel che avveniva con il sonetto zanzottiano: l’involucro è affrontato con grande e insieme affettuosa libertà, finalizzata alle proprie intenzioni espressive. E certo stupisce, al contempo, che Zanzotto affidi la propria «innocenza» e essenzialità espressiva all’inglese, cioè a una lingua avversata tutta la vita come lingua di una realtà falsificata, capitalista, disumanizzata (e il senso di un tale esperimento è stato indagato soprattutto da due lettori come Stefano Dal Bianco e Andrea Cortellessa, in due interventi che si possono leggere in Andrea Zanzotto. La natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, 2018: il risultato miscellaneo di un convegno di studi del 2014, nel quale gli haiku assumono un ruolo tutt’altro che irrilevante).

Maggio è il mese più citato
Ma è proprio il carattere di invenzione e incertezza che ha questo inglese zanzottiano a renderlo prezioso. Questo inglese è l’espediente adatto per ritrovare un dire in qualche modo originario, non troppo segnato – o castrato senz’altro – dalla ragione e dalla tradizione (che ha sempre un ruolo ambivalente in Zanzotto, protettivo ma insieme inibitorio), che permette allora risultati di questo tipo: «I grew in a thousand / breaths of shadow / but I didn’t forget» (così l’auto-traduzione: «Sono cresciuto tra mille / soffi di ombre / ma non lo posso dimenticare»). Se è vero che questi versi-pepita nascono in un momento di rischiosa mutezza, allora i tratti stilistici che li contraddistinguono andranno letti anche come strumenti adatti a riavviare un discorso inceppato, a riaccendere la scintilla della creazione: ecco dunque i trattini analogici, a dare forma a fantasiose concrezioni di realtà (il «rosa-aprile», i «timidi-perduti», «io ero solitario-rosso»), la trascrizione virgolettata di parole, a ridare l’impressione di un flusso verbale di nuovo vivo, combinata con l’iterazione fortemente percussiva di elementi, anche nel giro breve di tre versi («“Trovo trovo oh io trovo” / serico sì di pioggia ancora tanto amata / un sì che si ripete ancora»); l’insistenza sul dato coloristico in senso più stretto – non dimentichiamoci del ‘pittore’ Zanzotto, affezionato alla tradizione figurativa veneta («Oblioso rosso dimenticato / un papavero che legge il verde / da dietro gli occhi / da un migliaio di raggi rosso ridenti»), del quale si conserva, come nei versi appena citati, proprio il continuo riferimento stagionale. E qui, negli haiku zanzottiani, il mese più citato è probabilmente maggio (e proprio in maggio comincia la fioritura del papavero, che qui è fiore presentissimo). Maggio e papaveri, peraltro, riportano il lettore di Zanzotto soprattutto a un libro in cui la forma dello pseudo-haiku è in effetti ben presente, ovvero Meteo (1996): basterebbe leggere i testi raccolti, lì, sotto l’insegna di Leggende, che si ritrovano in effetti – pur con qualche variazione – negli haiku.
È il caso di questi magnifici versi dedicati a un elemento topico di Zanzotto come la neve: «mai mancante neve di metà maggio / chi vuoi salvare? / Chi ti ostini a salvare?» (ed ecco l’attacco in inglese: «Never-lacking snow of half-May…»). Non è solo l’ingranaggio metrico-linguistico, insomma, a destare l’interesse di questi piccoli gioielli, ma anche il profondo intreccio, anche tematico, che essi intessono, pur carsicamente, con l’insieme della poesia zanzottiana: ricompare Pasolini con il suo «obliato sorriso»; ricompare un mezzo «premoderno» come la «bici», che accomuna lo stesso Zanzotto e un suo personaggio-chiave come Nino Mura, già protagonista della Beltà e poi di Idioma. E, soprattutto, ecco il sovrapporsi, sempre traumatico e insieme magico, fra paesaggio e scrittura: perché «questo è il linguaggio delle sepolte colline».