Riyadh, fortezza del wahabismo e del conservatorismo islamico dei Saud, è anche la sede di un centro di riabilitazione di lusso per jihadisti. Una compresenza paradossale, se si pensa alla posizione dell’Arabia Saudita sullo scacchiere mediorientale: da un lato alleato dell’Occidente – in primis degli Usa -, dall’altro principale mecenate ideologico della cultura islamista.

Il Mohammed Bin Nayef Counseiling and Care Center è una struttura di deradicalizzazione e reinserimento per terroristi. Piscina coperta, terrazze solarium e spazi dedicati alla pratica di svariati sport sono solo alcuni dei comfort offerti dal complesso. Il centro è un luogo di transizione tra carcere e libertà, il cui obiettivo dichiarato è la guarigione ideologica, piuttosto che la coercizione. Alla guida della struttura, religiosi e psicologi si concentrano sulla riabilitazione dei jihadisti, per evitare che questi ricadano nella “seducente” trappola della propaganda.

Dal 2003, quando è stato aperto, il centro ha ospitato oltre 3.300 soggetti, inclusi alcuni detenuti di Guantanamo. Secondo il suo direttore, Yahya Abou Maghayed, intervistato da France Press, il percorso di riabilitazione ha un tasso di successo dell’86%. Ex membri di al-Qaeda o talebani seguono percorsi psicologici specifici improntati sulla riflessione, sullo studio dei testi sacri e sul rafforzamento dei legami familiari, compresi matrimoni e nascite. L’evoluzione psicologica del paziente – definito tale poiché la filosofia del centro respinge etichette come «detenuto» o «prigioniero» – viene valutata anche attraverso una terapia artistica: i dipinti prodotti all’inizio del soggiorno vengono confrontati con quelli realizzati dopo alcuni cicli di cure. «Coloro che dopo tre mesi dall’ingresso rifiutano il percorso di riabilitazione morbido – dice Abou Maghayed – vengono trasferiti al normale processo giudiziario».

Il centro sembra operare in linea con il programma politico del 31enne principe Mohammed Bin Salman, designato come prossimo erede al trono. Per rendere tangibile la svolta politica del suo futuro regno, ha già redarguito l’intero clero saudita, esortandolo a imprimere una svolta moderata nell’Islam.

Durante l’incontro dell’Alleanza islamica contro il terrorismo, tenutosi a Riyadh, il principe ha poi affermato che la coalizione si è impegnata a fare tutto il possibile per sradicare il terrorismo dalla società.

L’alleanza, che nell’anno della sua fondazione (2015) contava 34 Paesi, oggi ne runisce 41, escludendo – ça va sans dire – Siria e Iraq, accusati di aver foraggiato gli Hezbollah in Libano e l’Iran, colpevole di aver fornito strumenti tecnologici alla minoranza degli Houthi dello Yemen, ritenuti responsabili dei continui attacchi ai sauditi. Oltre all’azione militare, l’Alleanza ha sottolineato la necessità di piani culturali e d’informazione che contrastino il terrorismo, specie quelli rivolti ai giovani.

Ma il programma della monarchia del Golfo appare ben più controverso di quanto dichiarato. Tralasciando l’episodio delle dimissioni in diretta televisiva – su un canale saudita – del Primo Ministro libanese Saad Hariri, di fatto ostaggio di Riyadh, non si può non tener conto che l’Arabia Saudita, da sempre, finanzia e diffonde ogni sorta di estremismo sunnita nelle sue forme più dogmatiche e intolleranti come il wahhabismo e il salafismo.

La posta in gioco è l’isolamento di Teheran attraverso la neutralizzazione dei suoi principali alleati regionali – Siria e Iraq – per rilanciare una campagna denigratoria nei confronti degli sciiti.

Fa pensare che questo apparente cambio di rotta sia arrivato a pochi mesi dalla visita del presidente Donald Trump a Riyadh, il maggio scorso, quando il tycoon aveva firmato con re Salman un accordo da 110 miliardi di dollari per la compravendita di armi e sistemi di sicurezza da parte dei sauditi. Ma l’obiettivo, ancora più ambizioso, è quello di raggiungere la cifra di 350 miliardi in 10 anni. Dopo gli anni di cautela di Obama, l’asse Washington- Riyadh sembra tornato quello di un tempo.