Scrivi Internet e accedi a un ipertesto in perpetuo divenire. Ogni parola chiave introduce a un grumo di elaborazioni, esperienze, racconti epici sullo sviluppo di un software o sulla fondazione di una impresa che nel giro di pochi anni è passata da un mitico garage ad essere uno dei pilastri dell’economia di rete.

OGNI PAROLE CHIAVE funziona inoltre come un link che rinvia ad altri termini, componendo così una matrice che è legittimo qualificare come una network culture, dove convivono punti di vista diversificati e alternativi ad altri.
Il volume I visionari firmato da Fabrizio Fassio e Giuseppe Nicolosi (manifestolibri, pp. 269, euro 22) restituisce un punto di vista critico sull’insieme della «cultura di rete», finora presente solo in forma frammentaria e episodica. Il primo merito dei due autori è di avere connesso tra loro tali frammenti e di averli arricchiti partendo dalla esperienza lavorativa di «ingegnere dell’organizzazione» il primo e di formatore con una passione per la filosofia della mente e la psicologia sociale, il secondo.
Fabrizio Fassio è stato consulente di organizzazione; ha attraversato quella che viene chiamata la rivoluzione microelettronica dai primi anni Settanta ai giorni nostri, iniziando a lavorare con computer mainframe, centralizzati e dove la gerarchia tra progettazione, elaborazione del software e sua applicazione era chiara nel distinguere ruoli e mansioni lavorative.

POI È PASSATO ALL’ERA dei terminali che potevano accedere al computer centrale, per infine attraversare la fase dei personal computer, le prime reti telematiche aziendali e, successivamente, la connessione di queste al world wide web. Ha esperito l’inadeguatezza dei sindacati e della sinistra politica a comprendere fino in fondo le conseguenze della rivoluzione microelettronica e di proporre parole d’ordine politicamente efficaci per contrastare la ripresa del potere delle imprese sul lavoro.
Giuseppe Nicolosi, conosciuto in Rete anche come Rattus, ha invece sempre guardato alla network culture a partire dai cambiamenti cognitivi provocati dalle interfacce uomo computer. È cresciuto professionalmente dentro la Rete. Ha fatto hacking sociale, è stato animatore di mailing liste militanti. L’incontro tra i due è stato l’incontro di due generazioni teoriche e politiche. Entrambi si sono misurati con gli smottamenti, la crisi di una impalcatura teorica marxiana dove la tecnologica è considerata sistema di macchine al servizio del capitale per aumentare la produttività e mettere all’angolo le organizzazioni sindacali. Il personal computer e la Rete sono macchine e dispositivi tecnologici che possono essere programmati, rendendoli così flessibili. Consentono cioè cambiamenti repentini nell’organizzazione del lavoro. E, elemento non indifferente, cancellano il lavoro umano.

IL VOLUME RIPERCORRE le discussioni, l’elaborazione avviate dai teorici dell’organizzazione produttiva, ne mettono in evidenza limiti e capacità interpretative. E individua un gruppo di «visionari» (dai qui il titolo del saggio) che ha provato a mettere in evidenze le potenzialità liberatorie delle tecnologie digitali, ma anche i rischi di una nuovo e soft uso per aumentare lo sfruttamento del lavoro umano secondo le ferree leggi del profitto.
La tesi del libro è dunque focalizzata sull’ambivalenza della tecnologia digitale. Non è neutra, ovvio, ma può essere piegata anche a istante di libertà e liberazione dal lavoro salariato. La visionarietà del libro sta nelle pratiche sociali, collettive di un uso non capitalistico delle macchine. Un altro pregio è la ricostruzione della discussione dei teorici dell’organizzazione sulla possibilità di contrarre, ridurre al minimo le gerarchie, così come la progressiva riduzione della divisione del lavoro, l’attivazione di un ruolo non esecutivo per i singoli lavoratori. Questa progressiva evanescenza della gerarchia e divisione del lavoro non coincide con una maggiore libertà dei singoli. Il paradosso che la network culture non mette in evidenza è che coincidono possibilità di liberazione e di oppressione: il potere performativo di questa ambivalenza è il centro di tutto il volume.

QUEL CHE PERÒ MANCA in questa griglia analitica è che l’ambivalenza va comunque gestita. Domanda d’obbligo: chi la gestisce? Le dinamiche sociali che le macchine attivano, sembrano rispondere i due autori. Dubbio: le dinamiche sociali non sono neutre, come le tecnologie. La gestione dell’ambivalenza è semmai delegata alla cooperazione produttiva. Richard Sennett, autore citato nel libro, scrive che il lavoro in team trasforma i componenti del gruppo sia in controllori che controllati, in progettisti che esecutori. Qui non c’è vision libertaria che tenga. Sono altri i termini e i contesti da indagare e scandagliare: sono quelli della formazione di una soggettività autonoma, della rottura delle compatibilità definiti dall’impresa. In altri termini, è la formazione di un ordine del discorso autonomo con la consapevolezza che i computer, gli smartphone e la Rete sono da considerare medium universali e che la riappropriazione delle capacità di sviluppare il software sono momenti fondamentali nelle possibili pratiche autonome della cooperazione produttiva. Da qui, la necessità di coniugare attitudine hacker (condivisione del sapere e della conoscenza tecnico-scientifica dopo aver aperto la scatola nera della tecnologia digitale) e organizzazione del lavoro vivo. È una vision sicuramente non lontana da quanto auspicano i due autori del volume.