Mentre continua la protesta birmana non si placa la polemica sul bossolo di matrice italiana ritrovato a Yangon dopo un raid delle forze di sicurezza il 3 marzo scorso di cui il manifesto ha dato ieri notizia.

L’AZIENDA DI LIVORNO Cheditte, che aveva smentito ai giornali birmani di aver mai inviato cartucce in Myanmar e che martedì aveva preferito tacere, anche ieri ha preferito il no comment. Sulla vicenda interviene Rete Pace e Disarmo che «sottolinea la forte problematicità di tale ritrovamento e si associa alla necessità – già ribadita anche dal CdS dell’Onu – di fermare i flussi di armamenti verso il Myanmar», ricordando l’embargo totale europeo sulle armi.

La Rete sottolinea l’importanza di chiarire «quale sia stato il percorso delle munizioni prodotte dalla Cheddite considerando che vendite dirette non appaiono possibili proprio alla luce dell’embargo», cosa che rende plausibile «il sospetto di una triangolazione favorita da altri Paesi destinatari delle vendite della Cheddite».

L’unica citazione dell’azienda presente nelle Relazioni annuali al Parlamento sull’export militare si trova in quella relativa al 2014 ma non risulta però poi alcuna richiesta di licenza da parte dell’azienda negli anni successivi, «il che significa che tutte le esportazioni sono state effettuate con le procedure previste da altre norme (relative all’export di armi e munizioni “comuni”, non di tipo militare), sicuramente meno trasparenti e con più possibilità anche di aggiramento successivo da parte dei destinatari, come sembra dimostrare la ‘triangolazione’ verificatasi in questo caso».

Un elemento, commenta Francesco Vignarca della Rete, «per cui da tempo sosteniamo come le munizioni debbano essere considerate allo stesso livello delle armi leggere. Chiediamo a Governo e Parlamento di aprire un’indagine completa e approfondita per capire sotto quale normativa e con quali procedure siano stati autorizzati all’esportazione i lotti relativi alle cartucce trovate in Myanmar».
UN’OCCASIONE, aggiunge Vignarca, per «inserire tutte le esportazioni senza fare distinzioni tra armi comuni e militari e promuovere come Italia un’azione più concreta e decisa a livello Ue e Onu per mettere sotto controllo questi flussi». Un’altra azienda italiana intanto è finita nel mirino dei gruppi di tutela dei diritti umani in Myanmar (come già Sabrina Moles su il manifesto aveva scritto il 4 marzo): si tratta della SecurCube, trevigiana, apparsa in una lista di aziende che lavorano in Myanmar in campo digitale, redatta da Justice for Myanmar e ripresa dal New York Times, che ha analizzato il budget di due ministeri birmani. L’analisi rivelava che la polizia ha acquistato strumenti digitali per spiare e controllare la popolazione, soprattutto attraverso telefoni e social.

La SecurCube srl è l’unica azienda italiana presente nel rapporto. La risposta dell’azienda è secca: «SecurCube non ha mai avuto alcun rapporto diretto con alcuna agenzia governativa o privata appartenente allo Stato da voi indicato. Il nostro ufficio legale sta preparando le opportune misure legali a tutela dell’immagine dell’azienda che potrebbe venire compromessa da articoli di stampa falsi e fuorvianti».

SE CI SONO NUBI che passano su qualche azienda italiana, su un altro fronte il cielo è sereno. È il caso dell’Italy Myanmar Business Association, nata in Myanmar un anno fa e giovane come i componenti del Board (7 persone) che rappresentano circa una quindicina di aziende italiane. Tutti tra i 30 e i 40 anni, hanno rifiutato l’invito a incontrare la nuova Myanmar Investment Commission e basta guardare il loro sito dove in home campeggia la foto di un manifestante.

«NON CAPISCO perché la comunità internazionale sia tanto silenziosa – dice Beatrice Bridi che fa parte del Board e di Prometeo, che organizza fiere del Made in Italy – capisco, le istituzioni… ma per noi è diverso. Ci tengo a dire che abbiamo organizzato un gruppo di lavoro su Fb e Instagram – Voci dal Myanmar – dove cerchiamo di dare un quadro di quanto avviene». Solidarietà e impegno civile, la faccia migliore del Made in Italy, con una citazione sul Financial Times e una voce forte ai microfoni di Radio 24 o di altre emittenti.

Di ben altro tenore invece la posizione della Camera di Commercio Italia Myanmar, con sede a Torino, che «si propone di promuovere la cooperazione politica, economica e culturale» e ci tiene a specificare che, essendo un organo apolitico, non può prendere una posizione pubblica su quanto sta succedendo nel Paese asiatico. Il colpo di stato, dicono, è arrivato dopo un anno di sostanziale stallo per le attività dell’associazione, dal momento che l’incaricato di mantenere i rapporti tra i due Stati è bloccato in Italia dallo scorso gennaio.

Ma a detta dell’associazione, le comunicazioni con le aziende italiane comunque stanno continuando senza problemi durante il giorno, mentre di notte il traffico dati viene bloccato dall’oscuramento della Rete.