Il critico televisivo dell’Hollywood Reporter lo ha definito un black horror, nella vena delle commedie macabre Get Out e Sorry to Bother You, «una storia dell’assurdo dove la verità è fiction e le vittime sono i cattivi della storia». Anche se, tecnicamente parlando, Rest In Power: The Trayvon Martin Story è in realtà un documentario. Prodotta da Jay Z per il Paramount Network, la nuova serie in sei puntate di circa un’ora, in onda a partire da questa settimana, è stata sicuramente ispirata al docu colossal su O.J. Simpson realizzato dal canale sportivo ESPN, OJ: Made in America.

Rest in Power è meno ambizioso e complesso del grande film di Ezra Edelman ma ne riflette l’aspirazione più alta, emblematica, aldilà della vicenda true crime. Emblematico è sicuramente il suo protagonista, il diciassettenne afroamericano ucciso con un unico colpo di pistola dal «sorvegliante» civile di un villaggio residenziale della Florida, nel 2012. Anche grazie alla famosa dichiarazione di Obama – «Se avessi un figlio maschio avrebbe l’aspetto di Trayvon» – più di altri omicidi di giovani neri compiuti da bianchi (che spesso si accendono e spengono tristemente a livello di TG locali), il caso Martin galvanizzò l’attenzione dell’intero paese. L’immagine del suo volto giovane, aperto, incorniciato dal cappuccio della felpa (cappuccio che, abbinato al colore della sua pelle, a sentire l’omicida, l’avrebbe reso immediatamente «sospetto»), iconica quasi quanto la foto della bara aperta di un’altra giovanissima vittima della lunga tragedia afroamericana, Emmett Till.

Le manifestazioni punteggiate di persone di tutte le età e di tutti i colori, che indossano una felpa grigia come quella del ragazzo ucciso, il caso Martin è alle radici di #BlackLivesMatter. L’hashtag apparve infatti per la prima volta online dopo che l’assassino di Trayvon, George Zimmerman, processato per omicidio colposo, venne dichiarato innocente. Realizzato con la collaborazione della famiglia Martin (i due genitori oggi trasformati in attivisti) Rest in Power è articolato secondo quella che è ormai la grammatica abituale del true crime.

Interviste fatte su set patinati (fondali neri, molto cromo, l’artificio visibile di lampade a bandiere nell’inquadratura) e qualche ricostruzione drammatica, a contrastare la «grana grossa» delle immagini delle telecamere di sorveglianza (qui quelle del minimart dove Trayvon era andato a comprare delle caramelle poco prima di morire), delle riprese degli interrogatori della polizia, delle foto del giovane cadavere coperto di una cerata gialla da cui sbucano le Jordan, sul praticello di fronte alla casette della gated community, un ex simbolo di benessere economico parzialmente trasformato in public housing dalla crisi dei subprime. Il doc rivela infatti che Zimmerman, prima dell’incontro fatale con Trayvon, aveva già chiamato più volte il 911 per lamentarsi dei «nuovi arrivati» nel quartiere, astioso anche nei confronti dei bambini che giocavano nell’erba.

«Questi stronzi. La scampano sempre» sibila la voce del vigilante in una delle sue numerose chiamate alla polizia di quella notte – «C’è un tipo minaccioso, col cappuccio…Lo sto seguendo.» Ma l’audio più indimenticabile è un altro. Senza immagini, che arriva da lontano, quasi indistinto – è la voce di un bambino che sta morendo nell’erba, gridando aiuto!».

Tamir Rice era ancora più giovane di Trayvon Martin. Aveva dodici anni e stava giocando con una pistola finta quando è stato ucciso a da un poliziotto di Cleveland, nel 2014. In un altro gesto di rielaborazione artistica di questa cupa storia recente degli States, è dedicata a lui A Color Removed, un’installazione/mostra dell’iracheno-americano Michael Rakowitz che ha appena aperto in una galleria della capitale dell’Ohio.