Due donne, le mura di un appartamento, i gesti di una condivisione, lo spazio comune dell’attesa e l’incertezza di un altrove a venire. I used to Sleep on the Rooftop è uno dei film premiati nel concorso del Fid Marseille, il festival del documentario che si è chiuso ieri. È un esordio, infatti era nel concorso «Opere prime» – Lou Castel che della giuria, la stessa che ha assegnato anche i premi della competizione francese, era presidente sembrava entusiasta. La regista, Angie Obeid, è libanese (il film è una coproduzione con il Doha Institut del Qatar,che nonostante quanto si dica è uno dei Paesi del Golfo più attivi negli investimenti culturali a cominciare dal cinema), è quella che racconta è anche la «sua» storia, è lei infatti una delle protagoniste, e quell’appartamento a Beirut è il suo. Sta per lasciarlo, andrà in Europa a frequentare una scuola d’arte, però è ancora in attesa di una risposta, mentre pianifica la destinazione delle sue cose -«darò via tutto tranne una lampada e la sedia rossa» dice alla madre al telefono – chiama ossessivamente per avere una conferma alla sua ammissione.

Nuhad invece ha lasciato dietro di sé la Siria, ha una famiglia, dei figli, Angie è l’amica di uno di loro, per questo quanto è arrivata a Beirut Nuhad si è rifugiata da lei. Insieme osservano sullo schermo del computer le distanze tra i paesi europei, Germania, Portogallo… Nuhad fugge la guerra, Damasco, la sua città divenuta estranea; il tempo cola lento tra le pareti, nel riquadro della finestra dove la donna cerca un po’ di fresco la notte, sul balcone dove mangiano i pomodori siriani che hanno un sapore diverso dagli altri. Ascoltando le voci di chi se ne è già andato, e le loro difficoltà, l’oroscopo che forse ha una risposta. I used to Sleep on the Rooftop, con anche le ingenuità dei primi film, esprime alcuni dei motivi che hanno attraversato la selezione del Fid Marseille 2017 – diretto sempre con passione da Jean-Pierre Rehm – a cominciare da quelle del paesaggio elemento narrativo nelle diverse storie in tutte le possibili declinazioni: paesaggio politico, sentimentale, umano e «naturale», del mito e dell’immaginario nel quale vengono proiettate le esistenze e le realtà raccontate.

Qual è dunque il paesaggio tra le mura da cui Angie Obeid non esce mai, l’esterno è quanto si vede dalla finestra, sono le voci della tv o al telefono. Il cambiamento, l’esilio, la guerra in Siria senza bombe né immagini di macerie ma nella vita quotidiana, il vissuto di un conflitto e l’ignoto che all’improvviso scatena, le incognite dell’altrove, quanto rimane nel fuoricampo delle notizie, l’esperienza di ciascuno.

«Centro di spaccio, criminalità, abitato da poverissimi, uno dei luoghi più a rischio della Colombia». Questa la descrizione di El Cartucho, un quartiere di Bogotà distrutto alla fine degli anni Novanta in un progetto di riqualificazione urbana che sulle sue macerie ha costruito un parco, il Parco del Terzo Millennio, inaugurato nel 2000. Dove siano finiti i disperati abitanti di El Cartucho non si sa, ma del resto non sembrava questa la preoccupazione maggiore del governo colombiano che non se era visibilmente mai curato anche se tra i tossici di crack c’erano parecchi ragazzini, per lo più orfani, i genitori ammazzati da criminali o dalla polizia, abbandonati a degrado, prostituzione, spaccio, miseria, una morte certa nel conflitto tra gang. Che poi la bonifica abbia spostato il traffico di droga altrove, nei quartieri vicini – uno si chiama El Bronx – è ancora una storia differente. El Cartucho è il film, anche questo un esordio, di Andres Chaves Sanchez, colombiano e tra l’altro urbanista, più che la storia di un quartiere l’esplorazione di un paradosso fatto di brutalità e violenza che affida istituzionalmente le soluzioni dei suoi conflitti sociali alla repressione. Sanchez utilizza le immagini del Cartucho prima della demolizione strade sporchissime, cumuli di immondizia, povertà estrema, feste di quartiere, e droga tantissima, specie dopo che arriva il crack e gli spacciatori si impossessano del quartiere. La vita, come racconta qualcuno, vale allora meno di niente.

Oggi invece ci sono le immagini del parco, sulle quali si alternano le voci di «testimoni» che non vediamo.Dicono che è un grande cimitero, che sotto ci stanno sepolti migliaia di corpi senza nome uccisi dai trafficanti che anche da morti diventavano merce per gli studenti di medicina che ne avevano bisogno. I racconti si somigliano, sono tutti attraversati dalla stessa violenza, eppure nelle immagini del passato, tra le case in rovina che ora non ci sono più, il regista riesce a cogliere la presenza di persone concrete, gente con un volto, con delle storie, che o stato registra per il censimento ma che poi annulla per la «pulizia» urbana. Questo nuovo paesaggio sorto sul Cartucho contiene i «fantasmi» del vecchio e, soprattutto, mostra con chiarezza la sua contraddizione che è politica, e che nella cancellazione di un’evidenza – un quartiere degradato – nasconde invece l’immobilità rispetto al macrotessuto del paese, a quel traffico di droga che lo segna ma che è profondamente interno, un vero sistema, alla sua economia complessiva. E le persone di Cartucho o di altri luoghi simili, qui invece hanno un volto, non solo statistiche ma figure umane, figure di un paesaggio che è più semplice confinare oltre i bordi di ogni inquadratura.