Il conflitto in Ucraina ha drammaticamente accesso i riflettori anche sullo stato dell’arte nel paese, e in particolare sulla musica. Tra i generi anche il jazz che seppur non frequentato come altri ambiti, mantiene comunque una sua cifra e specificità. Del resto parliamo di un luogo in cui la musica direttamente o indirettamente ha sempre giocato un ruolo fondamentale.

Ad esempio, che cos’hanno in comune il nobel Bob Dylan, la folk singer Melanie, il cantante pop Michael Bolton, le rockstar Lenny Kravitz e Steven Tyler (Aerosmith), la vocalist Neko Case (The New Pornographers), il cantautore Eugene Hütz (Gogol Bordello), i jazzmen Bill Evans e Stan Getz, il compositore Leonard Bernstein, il pianista classico Vladimir Horowicz,il virtuoso country Peter Ostroushko e persino i rapper G-Eazy e Your Old Droog? L’Ucraina, come madre patria o come luogo da cui nonni e genitori migrano a fine Ottocento, andando in America, per cause economiche, religiose, politico-sociali a formare una comunità ben presto integratasi nel variopinto melting pot Usa.

Ma chi meglio simboleggia il recente passato dell’Ucraina musicale espatriata è ancora Art Hodes, nato nel 1908 a Mykolaiv (per i russi Nikolayev) una delle località contese a sud del paese. Arrivato in fasce a Chicago, lì apprende a suonare come un «nero» tanto da meritarsi l’appellativo di miglior pianista blues bianco; trasferitosi a New York suona regolarmente con i grandi, da Sidney Bechet a Mezz Mezzrow, ciò che ormai va chiamandosi dixieland revival, non senza disdegnare il più duttile swing, accanto all’italoamericano Joe Marsala.

Oltre a esibirsi su disco o in jam session con altri illustri colleghi (Louis Armstrong, Gene Krupa, Wingy Manone, Muggy Spanier, Barney Bigard) sempre in formazioni interrazziali (fenomeno ancora mal digerito dagli yankee negli anni Quaranta-Cinquanta), Hodes scopre l’inclinazione verso la didattica, stabilendosi nei sobborghi di Park Forest (Illinois) dove insegna e lavora: forse il maggior contributo alla storia del jazz viene da Art fornito con la serie televisiva Jazz Alley: in puntate di mezz’ora, spiega e suona il genere hot nel Chicago Style, chiamando a raccolta gli ancor numerosi superstiti e anche nuovi esponenti da Pee Wee Russell a Tony Parenti, da Jimmy McPartland a J.C. Higginbotham (l’intero programma riedito in tre dvd nel Duemila è ora scaricabile gratis in rete). Altro geniaccio consegnato alla storia ucraina è il trombettista tedesco Eddie Rosner riscoperto grazie al film Le jazzman du goulag (1999) di Pierre-Henry Salfati: fuggito dai nazisti, invitato in Urss a suonare lo swing per le truppe, dopo la guerra viene arrestato, con la famiglia, dalla polizia nella città di Leopoli con l’accusa di cospirazione e antipatriottismo; condannato a dieci anni, ne trascorre otto nel gulag di Magadan (Siberia) dove gli si consente di suonare per sollevare il morale dei prigionieri, dei secondini, dei funzionari sovietici in tutto il sistema carcerario; riabilitato solo dopo la morte di Stalin, ma privato di ogni royalties muore in povertà nel 1976: a lui però in questi ultimi anni vengono dedicati diversi tributi dai giovani jazzmen ucraini.

Rispetto al secolo di jazz su disco, i ritmi sincopati giungono però molto tardi a Kiev e dintorni, a causa della repressione sovietica (quando l’intera regione fa parte dell’Urss) e anche per via di un generale disinteresse, che dal crollo del regime in poi, viene compensato dai forti entusiasmi giovanili verso il pop, il rock, l’elettronica, il rap sia angloamericano sia locale ma fortemente influenzato dalle mode esterofile. Qualcosa cambia, quando emergono divi autoctoni come Oleh Skrypka, classe 1964, cantante e polistrumentista, tra folk, rock, punk, ma amante del jazz ucraino, che tenta di portarlo sotto i riflettori mediatici con qualche produzione discografica, benché il suo nome in patria, più che da jazzofilo, viene ricordato per la candidatura (rifiutata) alla presidenza della repubblica ucraina, per il rifiuto a esibirsi in Russia già al tempo delle prime occupazioni territoriali e per un raggiro giornalistico ai suoi danni quando viene sorpreso ad affermare che chi non parla ucraino ha un quoziente di intelligenza bassissimo.

La figura più nota degli ultimi vent’anni resta Oleksiy Kohan, conduttore radiofonico, spesso impegnato a organizzare concerti e invitare i migliori jazzisti nella capitale per la kermesse che egli stesso dirige e che di solito si tiene alla fine di ottobre. Si tratta del Jazz in Kiev Production Center, fondato all’inizio del 2007, che propone famosi solisti Usa, gestisce poi tre festival internazionali, organizza nel 2008 un forum con eccelsi protagonisti, coinvolti altresì in quella che rimarrà la caratteristica principale del festival, ossia un sistema di masterclass gratuito per studenti e musicisti.

Al secondo festival – Jazz in Kiev 2009 – la partecipazione dei jazzisti Usa, soprattutto chitarristi fusion, aumenta la partecipazione, ribadita dalla successiva edizione (2010) quando finalmente i media locali si occupano di jazz, sottolineando la presenza di un Herbie Hancock, il cui sound influenza le generazioni dei chitarristi ucraini nati fra il 1955 e il 1977, come Roman Miroshnichenko, Enver Izmaylov, Oleh Suk, Estas Tonne, Vlad De Briansky, spesso attivi o residenti all’estero.

In parallelo sorgono altre due manifestazioni: il Koktebel Jazz Festival dal 2003 a Bilhorod-Dnistrovskyi sul Mar Nero con decine di ospiti fra avanguardia sperimentazione e il Leopolis Jazz Fest (attivo dal 2011 al 2017 come Alpha Jazz Fest) presso la città di Leopoli, ritenuto dal quotidiano inglese The Guardian tra i migliori in Europa.

NOTIZIE FRAMMENTARIE

Le notizie sulle possibili radici del jazz ucraino degli anni Venti, coevo a quasi tutte le altre nazioni europee (comprese le vicine Russia, Polonia, Romania) restano alquanto frammentarie, mentre è nota la vicenda del compositore Bohdan Wesolowsky (1915-1971) di Stryi (vicino a Leopoli) che, ventenne, scrive diverse canzoni influenzate da jazz, tango, foxtrot (con testi ucraini), divenute subito popolarissime, ma ben presto rimosse non appena, finita la guerra, decide di trasferirsi in Canada. Un personaggio ancora nel dimenticatoio risulta invece il cantante/ballerino Pëtr Lešcenko (1898-1954), nativo di Isaevo (regione di Odessa) che propone in lingua russa uno stile crooner molto apprezzato in tutta Europa (incidendo per la Columbia rumena), ma proibito sia in Urss sia a un certo punto nella stessa Romania, dove, arrestato dalla Securitate, finirà i suoi giorni in galera.

Ma è solo con la distensione voluta da Nikita Kruscev e con l’allentamento della guerra fredda che i rapporti Urss/Usa beneficiano di scambi culturali riguardanti anche il jazz: celeberrima resta la prima tournée di Benny Goodman in varie città russe, ma è solo, nel 1971, la Duke Ellington Orchestra a esibirsi a Kiev davanti a un’audience festante numerosissima, come del resto accade per le altre tappe a Mosca, Leningrado e Tbilisi: per il critico angloamericano Leonard Feather, la tournée simboleggia «il maggior colpo di stato nella storia della diplomazia musicale». Anche questo non basta però a favorire l’affermarsi di un jazz ucraino, che, stando alle stime di Skrypka, nel voler compilare una discografia completa, concerne solo una manciata di registrazioni jazz in lp, mc, cd tra il 1970 e il 2000, mentre i circa duecento album esistenti fino al 2018 vengono registrati e pubblicati in soli dodici anni a partire dal 2005. E proprio nel 2018 la label inglese comincia timidamente a ripubblicare il jazz ucraino dall’antologia Jazz.ua Vol. 1 all’omonimo del Cherkasy Jazz Quintet di Sergey Krasheninnikov, che già in precedenza mostra eclettismo a volontà spaziando dal latin al soul, dai Beatles a Freddie Hubbard.