Ogni transizione porta con sé lampi di futuro e ombre del passato, traumi e opportunità. Tra gli artisti albanesi scorre, ancor di più durante la pandemia, un sentimento di malcelata insoddisfazione e irrequietezza, si vive una condizione di incertezza, precarietà e abbandono, che sta costringendo alcuni a riprendere le vie dell’esilio e della emigrazione, altri a inventarsi poetiche, spazi e pratiche di resistenza civile e culturale.
«Si era partiti bene – dice Ilir Butka che aveva fondato il Tirana International Festival, aveva prodotto Honeymoons di Goran Paskaljevic e La nave dolce di Daniele Vicari con Apulia Film Commission e Indigo Film, e aveva costruito il successo del Centro Nazionale del Cinema – poi tutto si è fermato. Viviamo una stagnazione culturale insostenibile, con una società estremamente polarizzata eticamente e politicamente. Siamo sommersi da tanti conflitti e micro-conflitti veri o presunti, e non capiamo più cosa unisce noi albanesi».

Non c’è ancora l’Albania Film Commission, eppure sono tanti i progetti in corso di Ilir Butka, come l’infrastrutturazione digitale dei cinema di Girocastro e Valona, il Balkan Film Market e il Balkan Film Festival che in ottobre nella Casa del Cinema a Roma dedicherà le sue attenzioni alla stagione felice che attraversa il cinema kosovaro con Berta Basholli, Norika Sefa e altri registi balcanici.

Il sogno pioneristico della sua vita lo sta realizzando all’interno della Università privata Barleti di Tirana, dove nascerà Vitamina Hub, un campus della creatività e dei nuovi media, con auditorium, cinema all’aperto, terrazze e giardini per vitalizzare e alimentare l’industria culturale. Un dinamismo che trova il suo pari nell’arte contemporanea: l’Art House di Adrian Paci a Scutari è un modello di innovazione artistica e di progettazione culturale, alimentato da un pensiero e una visione di futuro. A Tirana esauritasi la forza propulsiva della Biennale, molto attiva è la Galleria Nazionale dell’Arte che organizza grazie al direttore Erzen Shkololli e alla sua rigorosa linea curatoriale mostre personali e collettive, recuperando opere del realismo socialista e stimolando in tal modo il Museo Nazionale della Storia e la Galleria dell’Accademia ad accogliere nuove proposte. Soprattutto a Tirana sono nati nuovi spazi dove giovani artisti si auto-organizzano con piccoli finanziamenti e il sostegno degli Istituti di Cultura stranieri – in prima fila quello italiano – come la galleria Zeta, Tirana Art Lab, Bazament, Harabel.

Non mostra altrettanta vivacità il teatro pubblico e istituzionale, aiutato da un sistema che premia organismi e infrastrutture fatiscenti, spettacoli commerciali che riempiono i cartelloni dei teatri nazionali e municipali, comunque tra i pochi finanziati dallo Stato. Ora proprio per mancanza di finanziamenti, prima ancora dell’arrivo del Covid, si è interrotta la programmazione di quello che poteva diventare uno straordinario polo di riferimento per il teatro mediterraneo, il Butrinti Summer Festival, diretto per molti anni da Alfred Bualoti e Edmond Xhumari, nello scenario archeologico mozzafiato di epoca romana a Butrinti. E ancora più difficoltà attraversa l’ Albania Dance Meeting diretto da Gjergj Prevazi, l’unico festival albanese di danza contemporanea.
Un sistema che spinge giovani drammaturghi come Saimir Gongo ed Erion Kame, a cercare lavoro nei cento canali televisivi presenti in Albania, a scrivere sitcom per sopravvivere, mortificando le loro capacità drammaturgiche e narrative.

«Eppure c’è stato nel nostro piccolo un rinascimento culturale negli anni Cinquanta e Sessanta quando si mettevano in scena i testi di Shakespeare, Goldoni, Cechov, Brecht con registi che avevano studiato nei Paesi dell’Est e il pubblico affollava numeroso le sale teatrali. Negli anni Settanta Enver Hoxha ha dato il colpo di grazia alla pur giovane tradizione teatrale e fatta eccezione per una breve parentesi subito dopo la caduta del regime, durante la quale i registi cercavano di spolverare e portare in scena i loro sogni repressi o proibiti, è partito da lì un declino irreversibile. Con l’abbattimento del Teatro Nazionale nel maggio scorso le ruspe si sono abbattute sulla memoria e l’identità degli abitanti di Tirana», afferma Ardian Vehbiu, autore del bellissimo libro, Cose portate dal mare (edizioni BesaMuci).

Nei cartelloni del Teatro Nazionale sono state rare le messinscene dei testi scritti dal drammaturgo Stefan Çapaliku che ha raccontato con ironia e umorismo nero l’Albania contemporanea postcomunista dentro la transizione dalla tradizione alla modernità.

La demolizione del Teatro Nazionale è stata giudicata come un atto e un fatto liberatorio dai giovani artisti che finalmente vedono finire una storia di incuria, di parassitismo, di colpevole superficialità che ha caratterizzato il teatro albanese dagli anni Novanta in poi. «Acqua che non si muove, acqua stagnante che ha bisogno di rinascere e rimodellarsi’, ha dichiarato la giovane drammaturga e regista Klaudia Piroli a proposito del Teatro Nazionale, «nessuno ha voluto conoscermi, nessuno si è preso la briga di venire a vedere lo spettacolo che ho realizzato nella Black box dell’ Accademia come studentessa di regia teatrale. Ho perso subito la voglia di far parte del teatro come istituzione».

Da qui la scelta di Klaudia di crearsi il suo teatro indipendente e un’autonomia di pensiero, fuori dall’edificio del teatro, senza nessun aiuto pubblico. Vuoto è stato il titolo del suo primo spettacolo con le prove fatte in casa dell’ attore protagonista Josif Sina e la presentazione nel Tunel Terrace, nello stesso edificio del Teatro dell’Opera, un lavoro creato insieme a giovani artisti come Renato Balla, Loren Nikaj, Roni Bulku, Fjorald Doci, Gersa Kodranjeshi. Un ritratto impietoso della famiglia albanese che non accetta l’amore omosex. A fine mese presenterà nel centro culturale di Uzina il monodramma Niente, corpo, spazio e movimento per dire di violenza domestica, stupro, aborto e dei pregiudizi contro le donne, la paura della solitudine, la lotta per essere accettati, la trasformazione fisica e mentale, la paura degli amanti, il bisogno di amare.
«Mi bastano un corpo e uno spazio per creare un teatro indipendente, un teatro che dice la verità, che è puro e che appartiene all’essere umano … »

Contro pregiudizi e ipocrisie lotta anche l’attrice Ema Andrea, cofondatrice dell’associazione delle donne albanesi nell’audiovisivo, straordinaria interprete di ruoli femminili non convenzionali in spettacoli come 4:48 Psychosis di Sarah Kane con la regia di Alfred Trebicka , Madre e figlio di Jon Fosse e Equus con le regie di Dino Mustafic. Dal 2013 dirige il M.A.M. – Multidisciplinary Arts Movement, luogo di incontro tra arte, performance, teatro, antropologia e architettura in spazi industriali abbandonati ma anche incubatore di progetti internazionali.

Ora è alle prese con un Mephisto di Klaus Mann per esplorare il rapporto fra arte e politica e la funzione dell’arte come veicolo di riflessione sociale e politica, partendo dalla condizione di Mefisto come campione del male e da Sabiha Kasimati, una intellettuale condannata a morte e uccisa dal regime comunista, accusata di aver messo una bomba all’ambasciata russa di Tirana. Nei corpi e nelle voci delle giovani donne sembra vivere il futuro dell’arte e della cultura in Albania.

Scutari, città d’arte: intervista a Adrian Paci
Adrian Paci, nato a Scutari nel 1969, vive e lavora attualmente a Milano, insegna pittura e arti visive presso la Nuova Accademia di Belle Arti (NABA). I suoi lavori si trovano in numerose collezioni pubbliche e private come Metropolitan Museum, New York, Museum of Modern Art, New York, Musée d’Art Contemporain de Montréal, Centre Pompidou, Paris, Israel Museum, Jerusalem, MAXXI Rome, Fundacio Caixa, Barcelona, Moderna Museet, Stockholm, Kunsthaus Zürich, Zurich, Switzerland, UBS Art Collection, London, Museum of Contemporary Art, Miami, New York Public Library, New York, Solomon Guggenheim Foundation, New York, Seattle Art Museum, Seattle.

Grazie ad Art house, Scutari è diventata una piccola capitale dell’arte contemporanea..
Arthouse è nata prima di tutto come un gesto di resistenza urbana alla speculazione edilizia che stava investendo l’area dove c’era la mia casa di famiglia e quella di stile ottomano dei miei nonni. Con un amico architetto di Milano, Filippo Taidelli, abbiamo deciso di far girare le spalle al palazzo che stavano costruendo e abbiamo dato vita a un nuovo spazio dove il privato e l’apertura al pubblico, il vissuto e l’arte, il locale e l’internazionale si mescolassero continuamente. Abbiamo pensato di creare due aree, una come abitazione e l’altra zona aperta al pubblico per mostre e incontri, workshop, creando un dialogo tra spazio pubblico e privato. Con la prima mostra del 2015 ho ospitato i lavori di Giovanni de Lazzari, Willie Doherty e Pierpaolo Campanini, poi abbiamo avuto una serie di ospiti come Angela Vettese, Marta Gili, Michelangelo Pistoletto, Charles Esche, Emily Jacir, Yael Bartana e tanti altri. Nel 2017 è nata l’Art House School, un’ esperienza che ha fatto dialogare giovani artisti albanesi tra di loro e con ospiti internazionali. Poi è nato un piccolo festival all’inizio in gemellaggio con lo Schermo dell’arte di Firenze portando film su artisti o sull’arte e film di artisti nel cinema di Scutari e successivamente anche nei cortili delle case. Con la pandemia abbiamo dovuto sospendere le attività programmate ma ci siamo messi a tradurre e abbiamo pubblicato in lingua albanese alcuni autori che ci sembravano importanti, sulla teoria dell’arte, il pensiero filosofico come Agamben, Badiou, Deleuze, Didi-Hubwerman, Nancy, Han, Rancière, Weil etc. Poi abbiamo creato un canale video con interviste di artisti dei Balcani che si chiama Art House Channel.

A Scutari c’è anche il museo Marubi, un piccolo gioiello, vero?
Sì assolutamente, questa è una delle cose più belle di Scutari. Diversamente da Tirana che comunque è una città con più grandi ambizioni ma a volte anche con un certo snobismo, Scutari nella sua dimensione più piccola ha una sottigliezza e raffinatezza che spesso produce valori di alta qualità culturale. Il museo Marubi è un museo dove si espone fotografia ed è un archivio, un museo di negativi, che vanno dal 1858 agli anni 1970. Ma a Scutari ci sono anche realtà giovanili molto interessante con le quali collaboriamo, come il Centro Giovanile Arka oppure altre organizzazioni come Ekomendje o GO2 etc.

Mi sembra che tu sia stato contrario alla demolizione del Teatro Nazionale. Puoi ricostruire un po’ la situazione, cos’è successo?
Quel teatro, costruito dagli italiani negli anni ’30, aveva una architettura elegante, semplice, molto in armonia con gli altri edifici attorno, materiali leggeri innovativi per quel tempo, alternativi al mattone, al cemento o alla pietra. Negli anni ’90, come tutti gli edifici delle istituzioni culturali in Albania, trascurati da una cultura di mercato aggressiva, il teatro è stato piano piano dimenticato, spesso anche dal pubblico per dir la verità, e sicuramente dallo Stato. Non è solo il teatro. In quegli anni abbiamo visto l’indifferenza colpevole verso tanti edifici e istituzioni culturali che durante il regime avevano una funzione all’interno di quel sistema, a volte anche come strumento di propaganda, e poi hanno faticato a trovare la loro identità e il loro ruolo nel nuova società post comunista.
Abbatterlo è stato l’ultimo atto di un lungo processo di abbandono. Poi ci sono sempre logiche speculative quando si vede il territorio come possibilità di arricchimento. Preservare quello che c’è e considerarne il suo valore culturale, architettonico, storico, affettivo, sembra sia diventata una questione romantica, per gente naïf. Ho scritto una lettera aperta a Edi Rama il giorno dopo l’abbattimento del teatro. Lui è stato sicuramente il responsabile di quell’abbattimento, ma dobbiamo riconoscere anche una responsabilità collettiva, sociale e culturale che ci coinvolge tutti, così come va dato merito a chi per più di un anno si è attivato per difendere il teatro trasformando il suo spazio in un territorio occupato dove prendeva forma e si articolava un atto di resistenza civile.

C’è stata una diaspora di artisti albanesi in passato? Pensi che ora sia più forte il desiderio di tornare in Albania?
Gli anni 90 erano gli anni dei grandi esodi perché l’Albania finalmente si apriva al mondo e c’era questa grande voglia di conoscere, di fare esperienza altrove. Purtroppo anche ora continua una specie di emorragia, di fuga dall’Albania, perché è faticoso per chi vuole costruire il futuro lì… Però tanti giovani che hanno studiato all’estero poi sono tornati. Quello che trovo interessante è questa specie di mobilità, non si tratta più di stare in Albania o andare via. C’è una dimensione di mobilità, uno studia in Albania, poi continua a studiare in Canada, poi ritorna in Albania, poi va a vivere a Berlino, poi ritorna di nuovo in Albania.. Sicuramente quello che manca è un sostegno pubblico forte e strutturato per la scena dell’arte contemporanea, manca anche un sistema privato di collezionismo, di mecenatismo. Gli artisti albanesi lottano per la sopravvivenza. È complicato essere un artista di 25 anni che ha finito l’accademia e deve dedicarsi all’arte. Lo sappiamo, non è facile da nessuna parte. Anche in Italia non c’è molto sostegno pubblico, ma ci sono le gallerie, c’è il collezionismo. In Albania si sente questa mancanza, c’è poco nel pubblico e pochissimo anche nel privato.

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Il romanzo: «L’ora del male», di Tom Kuka
Anche alla straordinaria cantante jazz Elina Duni nelle cui vene scorre sangue albanese e che ora pubblica i suoi dischi con ECM Records piace La canzone di Çelo Mezani, una composizione nata durante il periodo di lotte contro il dominio ottomano, canto di morte della madre alla quale è stato ucciso il figlio, una sorta di stendalì greco-albanese.

Nel romanzo L’ora del male di Tom Kuka, pseudonimo del giornalista albanese Enkel Demi, pubblicato di recente da Besamuci editore, La canzone di Çelo Mezani si trasforma in dispositivo letterario e poetico per raccontare non solo il destino del personaggio Sali Kamati ma per intervenire su questioni che riguardano l’identità culturale albanese.

Sali Kamati per vendicare la morte di suo fratello uccide Çelo Mezani rivoluzionario della Ciamuria, territorio tra l’Albania meridionale e la regione greca dell’Epiro conteso di volta in volta da turchi, greci e albanesi. Una traiettoria sentimentale vede sbocciare l’amore di Sali Kamati per l’adolescente Tusha, ‘bella come la luce’, nipote di sua moglie Dirja.

Kamati è rispettato nel suo villaggio per aver consumato la sua vendetta ma disprezzato perché ama morbosamente una bambina. Un senso di morte e atmosfere magiche pervadono l’anima e ogni cosa. In cima alla montagna dentro una caverna buia e misteriosa dove la donna appare nuda e doppia, l’amore con Tusha trova nell’incontro con l’ora della morte il suo momento di verità e di inganno nello stesso tempo. «Vai, gli dice l’ora della morte, prendi la donna che ti ribolle nel sangue e non chiedere il permesso ad alcun essere vivente di questo mondo, perché stai amando, non uccidendo…». Quando una epidemia da rogna colpirà il villaggio, lo zio di Tusha decide di darla in sposa al figlio dalle gambe storte di Lazja dei Mejkati. Sali Kamati libera Tusha e la riporta a casa, provando ‘la gioia vertiginosa della giovinezza e la saggezza della virilità’. Ma anche per Sali Kamati arriva l’espiazione della colpa, ad aspettarlo per l’ultima vendetta e per ristabilire l’onore c’è Avdul, il figlio maggiore di Çelo Mezani che uccide Sali Kamati.

«Hai ucciso la mia canzone. Sono andato a morire senza una canzone» dirà Sali Kamati, chiedendo di dare il nome di Avdul al figlio che Sali ha concepito con Tusha. Ecco allora che La canzone di Çelo Mezani diventa con la morte di Sali Kamati simbolo identitario di popoli che si sono combattuti ma che si sentono accomunati nella morte dalle note di un canto che esalta l’eroismo e il patriottismo del popolo albanese e dei Cham. Un romanzo dove amore e morte si dividono lo spazio della vita e del racconto, che soprattutto esalta le virtù, le sane tradizioni e il coraggio del popolo albanese e dei Cham nella eterna battaglia tra la difesa dell’onore e il superamento del senso di colpa, tra il fascino di un mondo magico e la crudezza della realtà. Un romanzo apparentemente collocato ‘in un‘epoca senza tempo’ come recita l’ultima di copertina, ricco di suggestioni liriche e poetiche, dalla scrittura delicata e accattivante, seppure ridondante di analogie e metafore, che però inchioda l’identità culturale albanese in paradigmi patriarcali e quasi tribali, al riparo dai paradigmi culturali della contemporaneità.