Le origini della fotografia documentaria francese nel periodo che va dal 1928 al 1936 sono il perno attorno a cui gira un’esposizione al Pompidou di Parigi (visitabile fino al 4 febbraio). Photographie arme de classe – questo il titolo – attraverso una serie opere semi sconosciute di fotografi cerca di indagare il rapporto delle avanguardie e di alcuni artisti con le organizzazioni rivoluzionarie, l’uso del foto-montaggio come strumento di denuncia, il ruolo dei gruppi fotografici amatoriali. Un progetto estremamente ambizioso, durato tre anni di lavoro, che vuole raccontare dove andare a pescare la genesi della narrazione per immagini. Il reportage prima del reportage. «Quando pensiamo alla fotografia engagée fra le due guerre ci viene subito in mente il Front Populaire o la guerra di Spagna, con l’entrata in scena del fotoreportage. Ma tutto questo succede dopo ed esiste un ’prima’», spiega Damarice Amao, che ha curato la rassegna insieme a Florian Ebner e Christian Joschke.

È un momento abbastanza sconosciuto della storia della fotografia…
Abbiamo spesso guardato il risultato di un percorso e poco studiato le origini, il cammino che ha portato alla nascita della fotografia documentaria contemporanea. Ritrovare tutte le fonti è stata un’impresa piuttosto complesso. Alcune giacevano letteralmente dimenticate negli archivi. La nostra ricerca è un punto di partenza, ci teniamo a sottolinearlo. Non è assolutamente esaustiva.

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Si scopre anche che moltissimi fotografi dell’epoca – alcuni insospettabili, come Willy Ronis – erano impegnati politicamente… Era necessaria un’immagine per supportare un’idea?
C’erano pure fotografi non politicizzati, naturalmente. Noi ci siamo concentrati su un ambiente particolare, su gruppi di artisti e reporter interessati a una visione rivoluzionaria del presente. Che dialogavano attivamente con la Aear (Association des écrivains et artistes révolutionnaires). Ritroviamo fra loro Man Ray, Brassaï Cartier-Bresson, Willy Ronis, appunto. Sono suoi i fotomontaggi antimilitaristi, quasi inediti. Un autore che ai più è noto solo per la produzione successiva, per il suo approccio umanista.
Una parte dei fotografi citati nella ricerca proveniva da classi sociali svantaggiate e la loro empatia per i movimenti di contestazione sociale è molto diretta. Un gran numero di loro erano immigrati o figli di immigrati. Altri invece, come Cartier-Bresson, appartenevano a famiglie dell’alta borghesia francese, ma grazie all’influenza artistica del Surrealismo (che con la sua ribellione alle norme estetiche e etiche ha formato un’intera generazione di autori), si sono sentiti in dovere di prendere posizioni nette contro il fascismo (che avanzava a grandi passi in Europa), contro il sistema coloniale e lo sfruttamento capitalista.

Il vostro lavoro racconta forse le «radici» della fotografia umanista prima della guerra di Spagna. Perché questo aspetto è stato spesso dimenticato?
Sì, l’immagine positiva della cultura popolare nasce in quegli anni. A volte in modo virtuoso, cercando un riavvicinamento empatico e razionale alla condizione di ingiustizia che subivano alcune classi sociali o per riportare in luce ai disastri causati dal colonialismo. Altre volte, invece, la questione si fa più ambigua. Anche in quel periodo troviamo il pittoresco, l’affresco della povertà fine a se stesso che in alcuni casi prende il sopravvento, e che finisce per épater la bourgeoisie.
La motivazione dell’oblio: la risposta la si può rintracciare in una mostra. La fotografia umanista è stata recuperata nel secondo dopoguerra con The Family of Men, dove vigeva univocamente una celebrazione della democrazia occidentale. È stata una rassegna estremamente politica. I vincitori, gli Stati Uniti, proponevano un affresco dell’umanità basato su un ideale liberale, lontano da qualsiasi effervescenza rivoluzionaria. È normale che sia accaduto. D’altra parte, moltissimi fotografi dopo la guerra, sono diventati completamente apolitici. L’evoluzione della figura di Henri Cartier-Bresson, al riguardo, è emblematica e straordinaria.

Che differenza vede tra la pratica documentaria dei fotografi contemporanei e quella che avete studiato in «Photographie Arme de Classe», relativa al secolo scorso?
Nel mondo dell’editoria e della stampa la questione dell’obiettività oggi è cruciale. La trasparenza, la verità sono centrali. Ma non credo che i fotografi impegnati, anche radicalmente, siano scomparsi. Alcuni collettivi o piccole agenzie continuano un percorso autoriale complesso. Molti interrogativi sollevati dai fotografi francesi fra le due guerre sono di grande attualità. Basti pensare quanto pesi nel dibattito pubblico la questione della concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione. Anche se il linguaggio con cui la si descrive è cambiato, il punto è lo stesso. Il movimento dei gilets jaunes è stato raccontato soprattutto visivamente, in questi mesi. Per tornare alla differenza: il mondo fotografico cosiddetto amatoriale, all’epoca, era organizzato ideologicamente in gruppi come l’Apo (Amateurs photographes ouvriers); attualmente, invece, è attivissimo su Internet ma in veste post-ideologica o frammentata. È un pudore ideologico generalizzato che riguarda la maggior parte delle professioni intellettuali. Le persone forse non vogliono più assumere pubblicamente le loro opinioni, come invece accadeva in altre epoche.