Se non sono riprodotto in immagine non sono. Se non vengo fotografato, ripreso, messo in rete (ovvero reso immagine) resto invisibile. E non essere visto è non aver nome né rango: semplicemente, è non essere.

Non esser visti (nel senso di non essere visibili in immagine) vale mantenersi irreali. E anonimi perché il mio nome, la mia identità vive se consegue alla mia immagine, ha una ratifica di realtà solo se inoltrata in rete. Grazie al digitale, non c’è attimo del mio stare al mondo che io medesimo non possa registrare e replicare in immagine. Il mio mero esser vivo, giorno dopo giorno: il mio deambulare, il mangiare, il fare all’amore. Vestirmi, spogliarmi, lavarmi: li ‘formatto’ in immagini e così mi dico e dico agli altri «eccomi, son vivo».

Se non mi registro, non mi filmo, non mi fotografo in un selfie, non saprei come dire che sono vivo, come altrimenti attestare me a me stesso: quello lì nel display sono io, dunque io sono. Osservo me stesso nella immagine che invio, ho di me la medesima cognizione che di me gli altri acquisiranno osservando l’immagine che ho loro trasmesso. L’immagine di me ha senso in quanto la socializzo. Chiedo d’esser partecipato, condiviso, postato per essere me stesso. Un me stesso che sento di possedere in quanto lo predispongo per esser condiviso da altri. Perché quel me stesso sia riconosciuto dagli altri e da loro accolto e diffuso, è infatti opportuno che la mia immagine sia omologata, clonata su un circoscritto (ma a tutti noto) numero di modelli o immagini tipo che la autenticano.
Se il mondo è spettacolo, è notizia, è fama io sono se mi rendo compatibile e omologabile a quegli stilemi che connotano i comportamenti pubblici di chi ha raggiunto la fama.

Ci fu un tempo in cui il me stesso era il poliedrico soggetto che alimentava e muoveva la continua ricerca improntata al raggiungimento della consapevolezza, impegno di conoscenza, introspezione, analisi, attitudine critica.

«Conosci te stesso», l’esortazione socratica, che mirava a educare me all’umanità, nasce dal ‘dentro’, in interiore, ciascuno è chiamato a guardarsi ‘dentro’. Volgo lo sguardo ‘dentro’ e mi riconosco nella mia individualità, in una condizione che richiede una relazione, tende a un contatto con l’altro: sono uomo e nulla che si dica umano mi è estraneo.

Conosco me stesso per riconoscermi nell’altro e conosco l’altro per riconoscere me stesso. Oggi è venuto un tempo nel quale non ‘dentro’ – intus – cerco e, talvolta, trovo me stesso e l’altro. Quel me stesso abbiglio invece con i cascami mediatici – suoni, parole e immagini – di quanto mi è d’attorno e, una volta conformatomi, in quel me stesso risiedo conciliato e inerte, una illusione di vita che demando al contatto social. Non più il ‘dentro’, ma il ‘fuori’: il selfie. Il selfie è attestazione di presenza.

Presenza esteriore, ma certificata: in occasioni eccezionali; nel corso di avvenimenti che fanno notizia; o accanto a donne e uomini famosi. Il selfie dà senso a quel me esponibile, esterno, corporale.

È il mio corpo che, fatto con il selfie immagine, è coinvolto ‘d’ufficio’ nella narrazione mediatica, diviene riconoscibile dato sociologico, indizio veritiero di un costume, conferma del diffondersi di una moda, atteggiamento che nei sondaggi rilevati si afferma a macchia d’olio stasera per evaporare leggero domani.

È che il selfie mi introduce nell’universo anonimo, nelle globali moltitudini in rete che sono il risultato della replica continua del medesimo.

Non c’è più identità riconoscibile di luogo o unità di spazio. Io sono milioni e milioni e in questa sconfinata ripetizione di me stesso trovo la garanzia che sono. Sono: ovunque e uguale. Non esisto, se esistenza è istituire una relazione tra ‘extra’ e ‘intus’. Il ‘fuori’ del selfie livella il me al ‘fuori’ degli altri.

Cerco una affermazione del me stesso nella negazione di me stesso. Fattomi niente mi espongo a tutto. A tutto sono esposto.
La mia immagine intercambiabile, uguale a tutte le altre immagini depositate nel social globale. Inconsapevole di me, come lo sono, dicono, i morti.