Tutto è cominciato per colpa delle ferie troppo lunghe dei magistrati. È così che Matteo Renzi nel suo Il mostro (in libreria da oggi per Piemme, 192 pp., 17,90 euro) descrive l’origine della sua battaglia «per la giustizia», anzi contro «le inchieste, gli scandali e i dossier» che lo hanno coinvolto negli ultimi anni: colpa del fatto che lui avrebbe voluto tagliare i giorni di riposo ai giudici. La battaglia che Renzi si intesta, va da sé, è tutta condotta in nome del bene, anzi del meglio. Ci manca poco che, tra un giudizio sprezzante e una ricostruzione interessata, Renzi non arrivi a dichiararsi prigioniero politico: il tono, d’altra parte, ricorda quello di altre vicende giudiziarie con tinte politiche: da Eric Honecker a Silvio Berlusconi.

Dall’inizio alla fine Renzi ripete spesso che lui si sta limitando a riportare fatti oggettivi, ma tra le pagine de Il mostro i cosiddetti fatti sono sempre in secondo piano rispetto alle sue valutazioni. E, più che la ricostruzione di vicende già raccontate, a emergere è la lunghissima lista di nemici che Renzi compila: da Magistratura democratica all’ex amico David Ermini (che ha annunciato querela), dall’ex procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo al pm Antonino Nastasi, fino ai 5 Stelle, Salvini, Conte e, ovviamente, Massimo D’Alema.

La versione di Renzi sulla sua parabola politica è semplice: lui ha sempre lavorato per il meglio del Paese, non si è mai interessato troppo alla politica giudiziaria (che, in effetti, dimostra di disprezzare) ed è stato ostacolato da pm ostili «per ragioni mediatiche o di rivincita» e da avversari che gli hanno rovesciato addosso tutto l’odio che scorre nelle vene dei social network (con tanto di aiutino russo evocato anche per giustificare le sconfitte del 2016 e del 2018).

La parte che più sta facendo discutere è a metà, quando Renzi si produce in un ricco e circostanziato attacco a Ermini, che, in un «valzer dell’ipocrisia», pur accusando gli altri di avere rapporti ambigui con la politica sarebbe stato il primo a chiedere ed ottenere supporto politico per la sua carriera all’interno del Csm (l’interlocutore, scrive l’ex premier, sarebbe Luca Lotti). Il dente è avvelenato: Renzi si intesta la responsabilità dell’ascesa politica di Ermini e lo descrive come un non molto astuto carrierista che già nel 2004 costrinse il Pd a fare i salti mortali per portarlo al consiglio provinciale di Firenze.

I fatti tanto evocati, comunque, sono pochissimi. Sull’inchiesta Open, ad esempio, senza mai entrare troppo nello specifico, Renzi si limita a dire che i 3 milioni di euro di movimenti sarebbero tutto «denaro privato regolarmente bonificato a fondazioni riconosciute dalla legge». Alla fine c’è anche spazio per qualche considerazione sull’attualità, con due passaggi significativi. Il primo è sulla guerra in Ucraina, che secondo Renzi si risolverebbe se l’Europa avesse una posizione più chiara e, magari, riuscisse a imporre un mediatore (Merkel o Blair).

Il secondo è sulla rielezione di Mattarella al Colle, con il racconto dell’incontro/accordo con l’aspirante presidente Casini. «Amico mio, se perdi ci sono. Ma se rischi di vincere io non servo più», avrebbe detto il fu rottamatore al principe dei rottamabili. La verità, però, è il rovescio di quella promessa.