La sfida è a colpi di applausi, di presenze, di hashtag, #quiRenzi e #quiLetta. A metà pomeriggio parlano in contemporanea il sindaco di Firenze Matteo Renzi, rompendo un digiuno mediatico di un mese; e il presidente del consiglio Enrico Letta, prendendo fiato dalla trincea larghintesista di Palazzo Chigi. Il primo fa un comizio a Borgo Sisa, Forlì, dove si fa aspettare – un incidente rallenta la sua auto -, e in tarda serata a Reggio Emilia. Il secondo è a Genova, intervistato dal direttore del Tg1 Mario Morfeo, dà il via alla festa nazionale (ma il nastro lo taglia il segretario Epifani con la ministra Kyenge, e poi con il segretario dei socialisti franceschi Desir e quello del Psoe spagnolo Rubalcaba). A Forlì una battuta sui militanti: «Vado soltanto alle feste del Pd perché fare le feste del Pd quest’anno richiede un atto di coraggio», risate. Al Porto una battuta sui pisani gemellati con il Genova, il premier com’è noto è di Pisa.
La sfida è tutta in discesa per il sindaco e in salita per il premier, all’indomani della brutta intesa con il Pdl sull’Imu e alla vigilia di un possibile aumento dell’Iva. Che, promette, non ci sarà. Né l’abolita tassa sulla casa sarà scaricata sugli inquilini, giura.

Ma da Forlì Renzi attacca: «Quella dell’Imu era una promessa elettorale del centrodestra e gliela abbiamo fatta mantenere noi al Pdl». Letta cerca di sminarsi il campo: «Il mio non è il governo per cui ho fatto la campagna elettorale, la prossima campagna la farò per un governo di centrosinistra». Da Forlì il candidato in pectore replica: «Il problema non è quanto dura il governo ma cosa fa».
Renzi ha promesso, in un’intervista all’Espresso, non farà cadere il governo. Ma non che non lo metterà sulla graticola. E così quello di ieri non è che l’inizio della sua corsa alla segreteria. Non la annuncia ancora: aspetta le regole all’assemblea nazionale del 20 e il 21 settembre. E la certezza che fare il segretario del Pd non significhi rinunciare alla corsa per la premiership.
Nel frattempo tira colpi a tutti. Al segretario, per il congresso ritardato: «Se vogliamo chiamarci Pd, fatemi dire una cosa a Epifani: bisogna accettare l’idea che si rispettano le regole. Lo statuto dice che entro il 7 novembre va fatto il congresso, è una questione di principio. Chiediamo agli altri di rispettare le sentenze e noi non rispettiamo le scadenze. Se ci chiamiamo Pd dobbiamo fare il congresso. O ci chiamiamo partito simpatico. Avevo capito che non ti candidavi tu, non che non ci facevi fare il congresso». Letta ha appena detto: «Concentriamoci sul progetto per l’Italia, dividersi sulle regole la cosa più stupida che potremmo fare». Ma poi di regole parla anche lui: per il Pd vorrebbe «un segretario che come primo compito si impegni a fare il Pd». Sarà della partita? Difficile. «Chi pensa di spaccare il Pd fra un pisano e un fiorentino sbaglia, perché io ho intenzione di svolgere il mio compito e lavorare per un Pd più unito più grande che possa vincere senza bisogno di nuove larghe intese». Se non è la promessa di una non belligeranza poco ci manca.

Ce n’è anche per l’ex segretario Bersani, che dice di non capire che partito vuole il sindaco: «Voglio un Pd che finisce il proprio mandato non con meno tessere. Da iscritto non con meno voti di quando era partito, da cittadino voglio un Pd che non perde le elezioni e con meno consenso di quando era partito».Ce n’è anche per Berlusconi, ovvio. «In qualsiasi paese civile un leader che viene condannato in via definitiva va a casa senza aspettare che venga interdetto». Ma basta parlare del Cavaliere, chiede: «Continuiamo a chiederci, ’ma poi Berlusconi che cosa fa?’. C’è un modo per archiviare questa domanda, è smettere di parlarne». Non è un’idea nuova: anche Veltroni, nel 2008, scelse di non nominare mai il suo avversario, «il principale esponente dello schieramento avversario», lo chiamava. Non bastò per vincere. È nella tradizione anche l’anticorrentismo: «I renziani?», dice, «se divento segretario per prima cosa rottamo le correnti». Lo diceva Bersani prima di diventare segretario, e Veltroni dopo essersi dimesso. Renzi giura che con lui sarà tutto diverso: «O insieme ci diamo una scossa e proviamo a cambiare il Pd oppure non si va da nessuna parte».

È nella tradizione renziana, invece, l’ accento sul welfare. Qui Renzi abbandona gli eccessi alla Ichino. Ma resta in zona: «Il sistema di welfare non va solo difeso o allontaniamo una parte del nostro elettorato. C’è una parte importante del paese che è priva di garanzia e non mi riferisco solo ai giovani, ma ai cinquantenni, a quelli che sono fuori dalle tutele dei sindacati. Il Pd è il primo partito tra pensionati e dipendenti pubblici, ed è un bene, ma tra i disoccupati ci passano davanti Pdl e Grillo, siamo i terzi. È il momento di dire che il Pd deve diventare il primo partito tra coloro che garanzie non ne hanno perché quelle garanzie le daremo noi, cambiando un fisco che ci chiede il sangue ma è inefficiente. Siamo in grado di cambiare davvero o solo a parole?».