«Nessun veto su Conte», assicura Matteo Renzi nella conferenza stampa show in cui annuncia le dimissioni delle sue due ministre Bellanova e Bonetti e del sottosegretario Ivan Scalfarotto. «Nessun veto», ripete soddisfatto dopo un’ora torrenziale in cui ha demolito l’attuale governo definito «immobile» e l’avvocato premier «che vuole trasformare la democrazia in un reality show e non rispetta le regole democratiche». «Ma ora per palazzo Chigi non c’è solo un nome».

E anzi, messaggio al M5S ma anche al Pd «è chi si aggrappa a un solo nome e minaccia le urne che è irresponsabile». Il rottamatore lascia aperto un sottilissimo spiraglio per provare a rimettere insieme la maggioranza giallorossa, ma fa capire in ogni modo che per lui il problema è proprio Conte. E ai tantissimi che gli obiettano “come si fa ad aprire una crisi in piena pandemia?” risponde roboante : «Chi in nome della pandemia pensa di fermare il gioco democratico non ferma i contagi, ma la libertà e la democrazia».

Giornata tosta, per il senatore di Rignano, che sa di «giocarsi la faccia» e forse anche qualcosa in più, la stessa sopravvivenza politica, e per questo forse alza così tanto i toni contro il governo che ha sostenuto fino a un minuto prima: «La crisi è aperta da mesi, e non siamo stati noi, senso di responsabilità è cercare di risolvere i problemi, non nasconderli».

Cita non a caso le ripetute richieste di un «salto di qualità» del governo, arrivate negli ultimi mesi dal Pd, per poi arrivare a illustrare i tre punti per un eventuale nuovo contratto di governo. Che potrebbe arrivare solo se Conte si dimetterà, senza cercare responsabili in Senato. Il succo è: «Affrontare i problemi senza continui rinvii e giochi di parole e rispettando le liturgie della democrazia».

Nel merito, Renzi cita la eventuale rinuncia da parte di Conte all’accentramento, alla delega ai servizi, agli schiaffi al Parlamento: «Non abbiamo consentito i pieni poteri a Salvini, non li consentiremo a nessun’altro». Secondo: «Strategie per l’Italia dei prossimi anni, che significa trasporti, scuola, cantieri e soprattutto prendere il Mes per la sanità». Terzo: «Disponibili a costruire, ma non sulla sabbia, prima vogliamo vedere il progetto».

Sul Recovery, dice, «ci sono stati passi avanti grazie a noi, con meno bonus e più investimenti, ma non sulla giustizia e 4,7 miliardi sul cashback sono irragionevoli». L’obiettivo è scrollarsi di dosso l’accusa di essere irresponsabile, che gli piove addosso sui social e da ogni parte, «voteremo sì alle misure anti Covid, allo scostamento di bilancio e al decreto ristori». Ma non si parli di appoggio esterno al Conte 2. Per lui quella è una pagina chiusa, a meno che il premier non trovi i responsabili e allora «auguri di buon lavoro, noi andremo all’opposizione».

Le condizioni che pone per un nuovo patto sembrano fatte per non essere accolte, «se ci vogliono devono accettare le nostre idee, non faremo da segnaposto, se si vuole fare un patto serio si va in Parlamento con dei punti scritti, non si fanno aperture da un angolo della strada» (stoccata a Conte che ieri ha aperto a un accordo con Italia viva con una intervista tv mentre passeggiava). Seguita da un altro fendente quando Renzi ha ricordato «le parole troppo timide di condanna verso Trump nel giorno dell’insurrezione al Senato».

Sul dopo, Renzi si tiene aperti tutti gli schemi. L’unico no che dice è il sostegno a un governo di centrodestra con Salvini, Meloni e Berlusconi più Italia Viva. Tutto il resto è possibile, «perché si vota nel 2023, i responsabili Conte li ha cercati ma non li hanno trovati», assicura. Sì invece ad appoggiare un «governo istituzionale», che vuol dire un supertecnico sostenuto anche da ampi pezzi del centrodestra e dal Pd (che nega questa opzione). «Siamo pronti a parlare con tutti», ripete, come a dire che già guarda fuori dal perimetro giallorosso.

Renzi ha sempre un nome in mente, quello di Mario Draghi, «lui sì che ci consentirebbe di spendere presto e bene i 200 miliardi del Recovery e di rimettere in piedi un paese in ginocchio», dicono fonti di Italia Viva. E ripetono che «se Matteo si è spinto fino a questo punto non è certo per un Conte ter con qualche nostro ministro in più». Ma per «cogliere questa finestra di spesa del Recovery che non ricapiterà per 20 anni, una occasione storica».

«Fare gli scatoloni non è facile, bisogna avere rispetto per Teresa, Elena e Ivan», ripete più volte, con la mente fissa al 4 dicembre 2016 quando dovette uscire da palazzo Chigi. Una ferita mai rimarginata, «dimettersi è una fatica». fatica è anche tenere insieme una truppa terrorizzata dal rischio elezioni. Ieri notte Renzi li ha riuniti tutti per rassicurarli: «Sono persone libere, ma non credo che qualcuno dei nostri salterà il fosso…».