Incomprensibile. È la parola più usata a proposito della crisi aperta alle 17,30 del 13 gennaio da Matteo Renzi. Incomprensibile per gli osservatori internazionali (Die Zeit parla di “atto disperato” per “riguadagnare finalmente visibilità e peso politico”, il Guardian di caos scatenato “nel momento peggiore possibile per l’Italia”). Incomprensibile per i commentatori (pressoché tutti) italiani. Incomprensibile per gli elettori di ogni ordine grado e colore, compresi quelli renziani (si pensi allo sconcerto degli amici sindaci, dai fedelissimi Nardella e Gori ai luogotenenti di lungo corso come il pesarese Ricci).

Certo, il “gioco al massacro” di Matteo Renzi nei confronti del governo, da lui un tempo voluto, e soprattutto del suo capo, Giuseppe Conte, faceva comodo a tanti (almeno finché il massacro restava verbale e virtuale): in primis – come ha sottolineato ieri Norma Rangeri – a quella Confindustria bonomiana che fin dai primi sintomi della pandemia non ha smesso un minuto di osteggiare ogni misura di contenimento e di caldeggiare un governo “altro” (Governissimo o Draghi che dir si voglia), per meglio accaparrarsi il bottino dei finanziamenti europei. Comodo al Pd, nel fare il “lavoro sporco” che non si sentiva di compiere in prima persona, per riallineare le politiche di spesa del Recovery Fund e favorire l’accettazione del Mes.

Comodo naturalmente al centro-destra appollaiato come un avvoltoio sul bordo delle urne. Comodo forse persino ai Cinquestelle, nel marasma in cui si dibattono, per bilanciare il peso di una figura come Conte che pur nella vicinanza, anzi forse per quella, rischiava di allargarsi troppo e far ombra a molti. Ma nessuno di quei potenziali utilizzatori finali poteva augurarsi (o immaginarsi) un epilogo così devastante.

In realtà la soglia Renzi l’ha superata quando dal virtuale è passato al reale (ritirando i “corpi” molto materiali delle sue due ministre). Dalla guerra di guerriglia allo scontro frontale. Insomma, quando ha lasciato che la miccia bruciasse fino a dar fuoco alle polveri, anziché spegnerla un centimetro prima come gli altri immaginavano.

Perché l’ha fatto? Confesso che non riesco a trovare spiegazioni plausibili tra l’armamentario della scienza o meglio dell’”arte” politica, che sia pur in forma perversa una propria razionalità pure la possiede. Nemmeno negli interstizi del machiavellismo nostrano, se non altro attento all’adeguatezza dei mezzi se non alla qualità dei fini. E di cercare ausilio più sul versante psichiatrico o psicanalitico, tra chi più che di fisiologia si occupa di patologie, del comportamento e dell’immaginare.

Renzi, questa tara da caratteriale l’ha manifestata quasi subito, al suo primo apparire sulla scena nazionale, quando i suoi compagni del Pd l’acclamarono come deus ex machina non accorgendosi di cosa fosse realmente l’uomo del destino nelle cui mani si precipitavano.

Ieri il Financial Times lo ha ribattezzato “demolition man”. Ricordo che per quanto mi riguarda nel 2015, quando incominciavano a manifestarsi i primi sintomi della sindrome, evocai quello che Walter Benjamin aveva chiamato il “carattere del distruttore”: colui che “conosce solo una parola d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia”, e per il quale si può dire che “l’esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso». Aggiungevo che il suo modus operandi era simile a quello del freaking – la tecnologia usata in America per produrre idrocarburi frantumando gli strati schistosi -, perché, allo stesso modo, anche Matteo Renzi, programmaticamente, genera energia (politica) con la frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin sulla cima della piramide, e dalla macchina dello Stato. Ma come gli ambientalisti ci spiegano che il freaking inquina le falde – aggiungevo -, così il renzismo rischia di inquinare l’intero spazio pubblico. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa”. E’ in fondo ciò a cui assistiamo oggi, a cinque anni di distanza.

Non è l’unico caso al mondo. E neppure il più pericoloso oggettivamente. Donald Trump, che con lui è inconfrontabile, se non altro perché ha dietro il 49% degli elettori anziché il 2%, e una strategia nella sostanza criminale, tuttavia ci offre un simile esempio di “psicopatico al potere”. E a suo modo anche Boris Johnson. Tutti costoro ci pongono la terribile domanda su cosa sia “oggi il potere”, nelle nostre società. E la risposta, ancora una volta, non sta nei classici della politica. Nei sacri testi di Max Weber o di Joseph Schumpeter. Forse una traccia ce la offre un massmediologo come Christian Salmon – quello dello storytelling – quando ragiona sullo “spettacolo fatuo allestito nel ‘teatro della sovranità perduta’” e sull’annessa “cerimonia cannibale” in cui l’uomo politico viene “costantemente divorato dalla propria immagine sovraesposta”, fattosi nella post-modernità rito universale, che si celebra nell’intero Occidente dove la “Rappresentazione permanente è chiamata a simulare – e sostituire funzionalmente – una sovranità che è ormai evaporata”.

A noi contemporanei per forza, che vedemmo anche un’”altra politica” tocca oggi essere testimoni di una generazione di uomini di Stato a cui è dato di incarnare il paradosso di uno Stato insovrano: politici “chiamati a governare nel contesto del declino della sovranità statale” trasformando appunto la pratica del governo in sua teatrale Rappresentazione. E trasformandosi, a loro volta, in caricatura di se stessi.